[2022-10] Prey su “Empire” 406

Traduco la recensione del film Prey (2022) apparsa sulla rivista “Empire” (UK) n. 406, ottobre 2022, a firma di James Dyer.

Non entrerò nel merito di quanto io non condivida una sola lettera scritta dal recensore, ma mi preme ricordare qualcosa che i novelli entusiasti di questo film sembrano aver frainteso: il Predator non ignora la giovane Comanche perché è donna, la ignora perché è disarmata. Se qualcuno degli amanti di Prey avesse mai seguito una qualunque altra storia di Predator degli ultimi trent’anni, avrebbe capito che quello mostrato non è un gesto paternalista di maschilismo anni Ottanta, esattamente come il risparmiare Leona in Predator 2 (1990) non è stato un gesto di sufficienza perché era donna, ma semplicemente uccidere una donna incinta non fa fare al Predator bella figura, né davanti ai suoi compagni di clan né nel suo “codice etico”.

Infine, spernacchiare oggi i muscoli oliati del primo Predator (1987) e invece dare per ottima la “sensibilità” con cui è stato girato Prey la dice lunga sull’orripilante revisionismo che stiamo vivendo.

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[2020-10] Film alieni su “Empire” (UK)

Sul numero di ottobre 2020 della versione britannica della rivista “Empire” la rubrica “The Ranking” – in cui quattro critici cinematografici si alternano su un dato argomento – affronta la saga di Alien e Predator: ne traduco il risultato.


Il franchise di Alien e Predator

da “Empire” (UK)
ottobre 2020

Dodici film. Quattro critici. Due specie in lotta.
Chiunque vinca, noi perdiamo.

Chris Hewitt. Questa è la prima volta che affrontiamo due serie, e solo perché qualcuno alla Fox si è reso conto che avevano sia il marchio Alien che quello Predator. È così che tutto è cominciato, con quel piccolo gioco citazionistico in Predator 2.

[Non è vero, malgrado lo pensino in molti: soprattutto quelli che non conoscono l’universo alieno espanso. Le vendite da capogiro del fumetto Aliens vs Predator – anticipato nel novembre 1989 da storie poi ristampate nel giugno 1990, cinque mesi prima di Predator 2, tratto a sua volta dal fumetto Predator: Heat del giugno 1989, segno che i produttori erano molto attenti alle storie Dark Horse – ha dimostrato che c’era un vasto pubblico appassionati di AVP, infatti si è subito messo in cantiere un film che poi ci vorranno dieci anni per fare, con purtroppo Paul Anderson alla regia. Nota etrusca]

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[2017] Empire (UK) Special Sci-Fi Movies

Il numero dell’inverno 2017 della testata “Classics” – serie di numeri speciali tematici della rivista “Empire” (UK) – è dedicato ad un tema sempreverde: “The Greatest Sci-Fi Movies Ever“. Certo, è un terreno minato stabilire quali siano i migliori film di fantascienza di sempre, anche perché stabilire il genere con precisione è impresa ardua, comunque è un’occasione per ripresentare sempre gli stessi titoli a nuovi lettori.

Prima del crollo del cinema l’universo alieno ha fatto in tempo a regalare ben tre titoli da inserire nel novero dei “migliori film di fantascienza di sempre”, stando almeno alla rivista. Non mi metto a tradurre i testi perché tanto è sempre la solita roba, ma mi piace tenere traccia dell’iniziativa.

L.

– Ultime riviste:

[2020-08] Michael Biehn su “Empire”

L’attesa per la seconda stagione di “The Mandalorian” (2020) si fa spasmodica e anche la rivista specialistica “Empire” comincia a mordere il freno in vista dei tanti grandi attori che saranno presenti almeno nella prima puntata della nuova stagione.

Nel numero di agosto dell’edizione “Australasia” della rivista c’è una bella intervista con Michael Biehn, a cura di Nick de Semlyen: ecco la mia traduzione.


Testato in battaglia

di Nick de Semlyen

da “Empire” (Australasia)
agosto 2020

È andato a braccetto con terminator, alieni, zombie ed Ed Harris,
dando vita ad alcuni degli eroi più fighi del cinema.
Michael Biehn incontra “Empire” per riflettere
su una carriera spesa ad affrontare il pericolo

All’inizio di questa estate Michael Biehn si è rivolto al mondo: «Ascoltate, e cercate di capire», ha gridato, mettendo le mani a megafono. «Questo virus è là fuori. Non si può patteggiare con lui, non si può ragionare con lui, non sente né pietà né rimorso né paura. Niente lo fermerà… finché non rimarremo a casa». Poi esce dall’obiettivo e si prepara ad uscire. «Kyle Reese… I’m out!»

Il video di 28 secondi è stato caricato in quella coscienza digitale skynetiana che è Twitter e i fan chiusi in casa ovunque sono esplosi. «Unisciti alla resistenza!», ha risposto qualcuno, «Ha ancora il tocco», ha detto un altro. Qualcuno ha addirittura messo l’audio sulla scena originale di Terminator.

Lo stesso Biehn, che non frequenta i social, è stato sorpreso dal clamore che ne è seguito. «Non sono bravo con le cose da “star del cinema”», racconta ora ad “Empire”. «Non ho mai avuto un addetto stampa, semplicemente capita che me ne vada in giro con mio figlio e racconto a qualcuno di questa cosa di Terminator e del virus. Mia moglie Jennifer ha detto “Dovresti registrarti e metterti on line“. Ero reticente, ma un sacco di amici e familiari non stavano prendendo sul serio questa cosa del distanziamento sociale, così ho girato il video e l’ho mandato a tutti».

Questo messaggio può aver salvato vite, o no. Ma una cosa è sicura: tutti quelli a cui è arrivato l’hanno visto con molta attenzione. C’è un motivo per cui l’attore è diventato il simbolo della resistenza umana, un Colonial Marine e la persona da ingaggiare per strillare ad Ed Harris in una prigione.

Perché quando Michael Biehn parla, stai maledettamente attento.

Malgrado la formidabile lista di ruoli da duro che ha interpretato nelle ultime quattro decadi, stupisce scoprire che i primi due film dove Biehn appare nei crediti sono commedie leggere che non prevedono alcuna sparatoria. Grease e Coach [in Italia, “L’allenatrice sexy”] sono entrambi film del 1978 e in entrambi Biehn interpreta un liceale che gioca a basket. «Sono in pratica una comparsa superiore [glorified extra]», dice del film più famoso. «L’unica volta in cui mi potete vedere è quando Travolta cerca di impressionare Olivia Newton-John e mi colpisce allo stomaco per prendere la palla. E in un’altra scena in classe, dove Kenickie tira fuori una rana e tutti impazziscono. Sembravo avere 14 anni in quella scena.» [Ne aveva 22. Nota etrusca.]

Il giovane Michael (secondo da sinistra) pronto a sfidare Travolta a basket

Originario dell’Alabama, laureato alla University of Alabama dove ha studiato arte drammatica, Biehn era determinato ad entrare nel cinema. Ha ottenuto un ruolo più grande nella commedia canadese Hog Wild [in Italia, “A tutto gas”], ha perseguitato Lauren Bacall in The Fan [in Italia, “Un’ombra nel buio”] ed è dovuto andare in Gran Bretagna per The Lords of Discipline [in Italia, “Cavalli di razza”], il primo delle sue cinque collaborazioni con Bill Paxton. «Amo davvero l’Inghilterra», dice, «mi piace la cadenza della loro parlata. Il tempo fa schifo, ma la mia battuta preferita sul clima è: “Che differenza c’è fra l’estate e l’inverno in Inghilterra? Che d’estate almeno la pioggia è più calda”.»

Nel 1984 arriva il ruolo che cambia tutto, sebbene all’epoca non sembrasse proprio. In effetti Terminator sembrava più il filmaccio di fantascienza da palinsesto notturno via cavo che l’avrebbe perseguitato a vita. Il regista, James Cameron, era stato licenziato da un film chiamato Piranha II: The Spawning e l’attore protagonista era un austriaco di nome Arnold Schwarzenegger, il che non ispirava molta convinzione. «Ho letto il copione e ho pensato: “potrebbe essere davvero un pessimo film”», ricorda Biehn. «De Niro e Al Pacino, Coppola e Spielberg, quelli erano i tizi con cui volevo lavorare. Ho pensato: “Questa cosa non finirà bene”.»

Una volta iniziate le riprese Biehn a malapena ha potuto interagire con Schwarzenegger («Potrei sbagliare, ma credo che il punto in cui sfonda la finestra e afferra Linda sia l’unico punto del film in cui siamo nella stessa inquadratura»), ma viene subito conquistato dai virtuosismi di Cameron. Sul set la sua prova nei panni del combattente della resistenza Kyle Reese, inviato dal 2029 per proteggere Sarah Connor, è perfettamente calibrata, con Reese inizialmente freddo ed efficiente come un T-800, che poi diventa più umano mentre si innamora di Sarah.

Con Cameron si è creato subito un buon rapporto, a tal punto che Biehn ha potuto fare ciò che pochi attori hanno mai osato: zittire il regista. «Jim non coccola gli attori», dice ridendo Biehn, «e una volta semplicemente gli ho detto: “Va bene, Jim, tutta la troupe sa che tu sai fare il loro lavoro meglio di loro, ma non sai interpretare Kyle Reese, quindi dammi una cazzo di battuta da recitare e andiamo avanti”. E fu tutto lì.»

Il suo film successivo sarebbe diventato un altro classico di Cameron, Aliens, come sa ogni viaggiatore della USS Sulaco Biehn non era nel cast originale. Invece è stato paracadutato ai Pinewood Studios a riprese iniziate per sostituire James Remar nel ruolo del caporale Hicks. Ha ricevuto la telefonata venerdì notte, e lunedì mattina era sul set ad indossare l’armatura già preparata da Remar. (A Biehn non piaceva quel disegno rosso posizionato proprio sopra al cuore, perché sembrava un bersaglio, ma era stato già girato del materiale con quell’armatura e se l’è dovuta tenere.)

«La gente mi dice: “Dio, dev’essere stata dura arrivare all’ultimo secondo e tutto il resto”. Be’, Hicks non ha tutti questi dialoghi, così ho avuto tre mesi per imparare all’incirca venti righe». Come Reese, Hicks è un eroe fantascientifico di cuore e un condottiero, ma Biehn gli ha dato sfumature più positive, rendendolo più solare, meno torturato. «In Terminator, Reese non sorride mai, ad eccezione di una volta in cui si trova nella stanza d’hotel e sa che si farà Sarah. No, sto scherzando. Siamo nella stanza d’hotel, lei gli tira qualcosa e lui ride. Mentre in Aliens Hicks sorride per tutto il tempo. A Jim [Cameron] e Gale [Anne Hurd] piaceva che non recitassi il solito tipo tosto. Hicks sorride ed è sottomesso a Ripley. È stato un gran ruolo, e penso che sia il film migliore di Cameron».

Gli unici istanti di leggerezza di un combattente del futuro

La sua terza collaborazione con il regista è stata nel 1989 con The Abyss, dove interpreta un Navy Seal di nome Coffey che va sotto l’oceano per raggiungere l’equipaggio di una trivella sottomarina, e mentre la pressione sale lui va fuori di testa. Le riprese in South Carolina sono state dure a livelli leggendari, e il film in seguito ha ricevuto giudizi contrastanti. Ma Biehn è indiscutibile nella sua prova da cattivo baffuto, sebbene lui specifichi che si tratta comunque di un bravo soldato estromesso dalla catena di comando. «Ho amato interpretarlo», dice. «Era un Navy Seal prima ancora che tutti sapessero cosa fosse, un Navy Seal. Il suo cognome è una specie di scherzo, Coffey, perché avrei dovuto bere un sacco di caffè.»

Ci sarebbe stata un’altra collaborazione Biehn-Cameron per Terminator 2, ma il veloce ritorno di Reese (come sogno di Sarah nell’ospedale psichiatrico) è stato tagliato dal film e rimane solo nella versione estesa in home video. L’attore ora ammette di esserci rimasto male. «Quando T2 è stato un così grande successo e tutto il resto, mentirei se non dicessi che ero un po’ geloso», racconta. «E ci sono rimasto male quando ad una proiezione speciale hanno messo gli attori di T2 da una parte e gli altri da un’altra: a me è toccata la seconda.»

Kyle e Sarah nella celebre scena tagliata da Terminator 2

I due rimangono amici, poco tempo fa Biehn ha chiesto a Cameron quando farà un’edizione Blu-ray di The Abyss. È rimasto in contatto anche con Schwarzenegger: i due storici nemici temporali diventati amici. «L’ho visto all’incirca sei mesi fa ed è in forma splendida», ricorda Biehn. «Scherzando gli ho chiesto chi fosse il suo chirurgo plastico ed è scoppiato a ridere».

Biehn è divertente, franco e comunicativo: la telefonata di “Empire” con l’attore dura due ore. Ma sullo schermo è spesso ingaggiato in ruoli duri e carismatici. Al telefono invece è senza filtri.


Arrivano gli anni Novanta ed Hollywood non sembra sapere cosa farci di Biehn. Il suo secondo ruolo da Navy Seal è in… be’, Navy Seals, un’esperienza che gli provoca ancora dolore: quel thriller del 1990 è andato velocemente fuori dai binari.

«Sono state le riprese più orribili della mia vita», dice Biehn, senza fare economia di commenti. «Fottutamente orribili. Fottutamente orribili. Mi hanno offerto un sacco di soldi e c’era Charlie Sheen. Avevamo Bill Paxton, Dennis Haysbert e anche Joanne Whalley-Kilmer. C’erano strutture navali grazie ad accordi con la Marina. Voglio dire, avevamo tutto per il film… tranne un regista abbastanza furbo da non lasciare andare tutto in vacca, aggiungendo assurdità su assurdità, e ancora altre assurdità».

Nel ruolo del tenente James Curran, un Seal che ha una storia d’amore con una giornalista di moda, Biehn era autorizzato a rielaborare il suo personaggio, evitando stupidaggini come la scena in cui Sheen, senza alcuna ragione particolare, si butta da un ponte da un’auto in corsa.

«C’è una scena in cui porto Joanne in quella che chiamiamo kill house», ricorda, «e tutti le gridavano intorno. L’ho scritta io quella scena, e tutte le scene che mi riguardavano. Perché quanto era previsto dal copione era semplicemente stupido. Poteva essere un buon film, un altro Top Gun, invece è riuscito solo a metà».

Il suo dolore nasce dal fatto che all’epoca era diventato amico di veri Navy Seal e sentiva su di sé la responsabilità di rappresentarli con dignità su schermo. «Volevo mostrarli per come sono, non come idioti che si buttano dai ponti». Per questo è stato felice di poter riparare a quel torto nel 1996 con The Rock, interpretando il suo terzo ed ultimo Navy Seal, un professionista abbattuto dai soldati rinnegati del generale matto (Ed Harris) nelle fondamenta di Alcatraz. Ogni volta che gli capita di incontrare Michael Bay, a Biehn piace ricordargli di aver recitato nella scena migliore del suo film migliore.

Quando l’attore loda qualche film in cui ha lavorato, sappiamo che è onesto: lui non fa roba da “pubbliche relazioni”. Per esempio non è particolarmente fiero dell’altro film che ha fatto con Nicolas Cage, diretto dal fratello di Cage: «È intitolato qualcosa come “Timeless” [in realtà, Deadfall. Nota del giornalista. (In Italia, quella buffonata de L’ultimo inganno. Nota etrusca)] e dopo aver visto il montaggio provvisorio mi sono sempre riferito al film come “Pointless” [privo di senso].»

La faccia di un bravo ragazzo in un filmaccio assurdo targato Cage

Invece ha solo amore per Tombstone, il western del 1993 in cui non interpreta un poliziotto, un soldato o comunque un autoritario, bensì un pistolero [pistol-twirling, “ruotatore di pistola”], un fuorilegge dal cuore nero chiamato Johnny Ringo. In un cast pieno di pesi massimi – Kurt Russell, Sam Elliot e Charlton Heston – Biehn lascia il segno.

Da sinistra: Biehn, Powers Boothe, Bill Paxton, Kurt Russell e Val Kilmer

«Ci sono voluti vent’anni perché la gente venisse da me a raccontarmi storie di loro con nonni o genitori a guardare insieme Tombstone, gente che l’ha visto trenta volte. Quand’è uscito non c’era nessuno che menzionasse il mio nome nelle recensioni, proprio come Aliens. Ragazzi che sono stati in Iraq o in Afghanistan mi hanno detto che quei film sono stati d’ispirazione per frasi da lanciare sul serio. “Stay Frosty1, “I’m your huckleberry2, “Alright, lunger, let’s do it3… Me l’hanno detto in tanti.»

«Stati molti attenti» «Fantozzi, è lei?»

Non solo i soldati ma anche altri in divisa si identificano con i personaggi di Biehn. «Il pubblico che mi ama è composto principalmente di militari, ufficiali di polizia e procuratori distrettuali», dice Biehn. «Una volta un poliziotto si è aperto la camicia davanti a me e sul suo giubbotto antiproiettile aveva un disegno di Hicks.»


Al di là del testosterone, gli appassionati di Biehn sono diversi e vari, addirittura ha fan bambini.

«Una volta mi sono visto arrivare delle ragazzine di dodici anni con due occhi sbarrati, e mi hanno detto: “Oh mio Dio, ma tu sei Hicks: ti amiamo!” Abbiamo fatto quel film vent’anni prima che i loro genitori si conoscessero!»

E poi ci sono gli appassionati di cinema che adorano le sue prove attoriali, piene di intensità e vulnerabilità. Damien Chazelle ha offerto a Biehn un ruolo nel suo nuovo film Babylon, una parte rifiutata dall’attore perché troppo piccola, con il rischio di venir tagliata via come quella in Terminator 2. Robert Rodriguez l’ha messo in Planet Terror come sceriffo. E Neill Blomkamp l’ha contattato per primo per un ruolo in Humandroid (che fu poi ritrattato e offerto a Sigourney Weaver), prima di calarlo nella nuova sceneggiatura di Aliens che riunirebbe Hicks e Ripley, malgrado il fatto che Alien 3 abbia spazzato via il marine dallo schermo.

Sfortunatamente quel progetto è stato espulso dallo spazio di Hollywood. Biehn ci è rimasto parecchio male. «Ero parecchio eccitato, all’epoca: sembrava un buon progetto. Ma ho avuto parecchie delusioni in carriera. E anche tanta fortuna, visto quanto mi è capitato con Aliens. A volte va bene, a volte va male: è così che va.»

Come Hicks, che ha l’abilità di addormentarsi in una nave che attraversa le nuvole per farsi un riposino prima della battaglia, l’attore sembra a proprio agio nel prendere la carriera come viene, dedicando del tempo alla scrittura (ha collaborato ad un saggio che denuncia come Kubrick trattasse gli attori sul set, e un altro su Tombstone che potete leggere on line). «C’è un sacco di gente che si dà da fare. Non so, da un certo punto di vista mi piace non lavorare», dice scrollando le spalle. «Mi avvicino ad un set e ho una specie di brivido, come a dire: “Grazie a Dio non devo più farlo”.»

Lo stesso si mantiene indaffarato, dirigendo due film (The Blood Bond nel 2010 e The Victim nel 2011), reincontrando Val Kilmer in Streets of Blood (2009) ed anche interpretando il Presidente nell’incredibile 2012. L’avvento del male (2001).

La contentezza di Biehn di far parte di Streets of Blood (2009)

Una telefonata a sorpresa, come quella che quel venerdì notte di tanto tempo fa lo convocava ai Pinewood Studios, può arrivare in qualsiasi momento. E sebbene Biehn non voglia né confermare né commentare, molte voci dicono che sarà presto sullo schermo nella seconda stagione di “The Mandalorian“. Se fosse vero, potete star certi che quando lui parla, Baby Yoda farà meglio ad ascoltare.


Note

1. Da Aliens (1986). Ai demoralizzati Hudson e Vasquez, Hicks dice di capirli, «but stay frosty». I sottotitoli italiani del DVD 1999 traducono erroneamente «ma stati molto attenti», poi corretti nella “Quadrilogy” del 2003 con «ma tenete gli occhi aperti». Il doppiaggio italiano viene reso con «ma sangue freddo, eh?». Quando Homer Simpson si ritroverà a guidare un manipolo di soldati, nell’episodio 18×05 (G.I. D’oh, 12 novembre 2006) della serie animata, nel momento di maggior sconforto gli apparirà una mascotte di cereali che gli dirà «Stay Crunchy» (in italiano, «Restate croccanti!»): mi piace pensare ad una “citazione aliena”. (Torna al testo)

2. Da Tombstone (1993). «Sono qua, fragolino», pronunciata da Doc Holliday (Val Kilmer) come risposta alla provocazione di Johnny Ringo ubriaco: «Nessuno di voi ha il fegato di giocarsi la pelle?». (Torna al testo)

3. Sempre da Tombstone (1993), ma la frase in realtà è «All right, lunger. You go to hell», pronunciata dall’ubriaco Johnny Ringo alla volta di Doc Holliday, resa in italiano con «D’accordo, tisico, ti spedisco all’inferno». (Torna al testo)


 

L.

– Ultime interviste:

[2020-08] Speculazioni sul futuro della Alien Saga

Sul numero di agosto della rivista “Empire” (edizione UK) a pagina 11, tra le notizie varie, trovo un trafiletto curioso che mi diverte tradurre: un’elaborata speculazione su quale potrebbe essere il futuro dei film dell’universo alieno, divisi tra la follia di Ridley Scott e la nuova gestione Disney.

A parlare è Ian Nathan, spacciato per “esperto” ma che è un semplice critico cinematografico, noto anche in Italia perché sbuca fuori in una lunga serie di documentari legati ad attori famosi trasmessi più volte da Mediaset (su IRIS prima, poi su Rete4). Qualsiasi sua autorevolezza da “esperto” del mondo alieno è del tutto auto-assegnata.

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Alien 5: Walter Hill e David Giler ci sono!

Grazie a Cassidy del blog La Bara Volante ho scoperto che in questi giorni siti come ComingSoon.it stanno rimbalzando la notizia di un prossimo Alien 5, indipendente dai tanti progetti di Ridley Scott. Visto che è dal 1997 che la Rete ci regala notizie e voci di corridoio su Alien 5, va sempre preso tutto con le molle.
Non frequento siti italiani generalisti che si limitano a tradurre notizie prese in giro in un “gioco del telefono” che genera solo confusione, ma studiando i link che mi ha segnalato Cassidy sono riuscito a risalire alle fonti per capire cosa sia successo in questi giorni tanto da tornare di nuovo a gridare al “nuovo Alien”.

La rivista britannica “Empire” ha appena pubblicato il numero di luglio, interamente dedicato agli “eroi del cinema”: la solita classifica dei 50 protagonisti più eroici della storia del cinema: fa comunque piacere trovare Ripley addirittura al numero due!
Per l’occasione la rivista ha chiesto qualche dichiarazione a Sigourney Weaver, che ha speso due o tre parole per ogni film: niente che valga la pena di riportare.

Finiti i quattro film, il giornalista Ian Nathan dichiara:

«Lei [la Weaver] tifava per Neill Blomkamp e la rinascita della saga ripartendo da Aliens, ma la Fox non ha avuto fiducia nel progetto. Recentemente il produttore Walter Hill le ha mandato un copione di 50 pagine per un quinto film con Ripley. “Non saprei”, riflette l’attrice, “forse Ripley ha fatto il suo tempo: merita di riposare”.»

Malgrado le parole della Weaver siano chiaramente poco entusiaste – magari per far alzare il prezzo dell’ingaggio, non lo sappiamo – d’un tratto passa l’idea che invece lei sia d’accordo, e infatti rimbalzano notizie sulla sua disponibilità.

Il sito Syfy Wire il 15 giugno afferma che quella veloce dichiarazione della Weaver avrebbe generato una reazione in Walter Hill. Credo che in realtà sia stato il sito a contattare la Brandywine per sapere se esistesse realmente un copione di Alien 5, comunque traduco il passaggio interessato:

«Oggi [15 giugno 2020] la compagnia di produzione di Hill ha rivelato a Syfy Wire che non solo il copione esiste, ma che l’ha scritto lui stesso insieme al compagno di sempre, David Giler. E non si tratta di qualche progetto che stava lì a prendere polvere che ora si è deciso di riesumare: l’ultima stesura del copione è datata marzo di quest’anno.»

Quindi l’ufficio stampa della Brandywine ha rivelato queste scottanti novità al giornalista Josh Weiss, e solo a lui, invece di rilasciare un comunicato ufficiale. Sicuramente Weiss avrà riportato tutto in maniera esatta, ma se avesse capito male? Come facciamo a sapere cosa esattamente gli è stato detto?
Dall’ufficio stampa poi si sale fino a Walter Hill in persona, che parlando con Weiss così gli dice:

«Sigourney è da sempre troppo modesta riguardo la sua capacità di tirar fuori un’idea che te la faccia fare nei pantaloni, che prenda a calci un nuovo xenomorfo e ti porti a riflettere sia sull’universo della saga che sul destino del personaggio di Ripley.»

Queste parole criptiche Hill le avrebbe dette solo a Weiss: per me lo stava prendendo in giro…
Comunque la Brandywine ha mandato al giornalista una foto in esclusiva dei copioni: che siano veri, lo sanno solo loro.

Copione di “Alien V” inviato personalmente a Syfy Wire

Come si vede, la data è del 13 marzo 2020 e la sceneggiatura – depositata al sindacato WGA – è firmata da Hill e Giler, con due frasi di lancio in alto:

«Nello spazio nessuno può sentirti gridare.
Nello spazio nessuno può sentirti sognare.»

In passo una citazione di Edgar Allan Poe, due versi dal poema A Dream Within a Dream (1849):

All that we see or seem
Is but a dream within a dream.

«Tutto quel che vediamo, quel che sembriamo
non è che un sogno dentro a un sogno»
(traduzione di Tommaso Pisanti, Newton Compton 1990)

Infine una frase attribuita a William Tecumseh Sherman ma senza particolare sicurezza:

War is hell.

«La guerra è l’inferno.»

Scrivere un copione non vuol dire niente, di sceneggiature mai diventate film sono pieni tutti i cassetti delle case produttrici di Hollywood. Però mi piace pensare che dopo la follia squinternata di Alien: Covenant (2017) Walter Hill abbia pensato che era venuto il momento di pensarci lui, ad Alien: di sicuro non potrà fare di peggio.

L.

– Ultimi “retroscena”:

[2018-09] The Predator su “Empire Italia”

Dopo l’ammazzata che mi sono fatto a tradurre il grande speciale della rivista “Empire” – qui, qui e qui – la sua versione italiana il mese successivo presenta il testo tradotto da Francesco Cunsolo. A saperlo, avrei aspettato risparmiandomi la faticaccia…

Inutile quindi presentare le immagini della rivista: è la resa italiana di quanto già mostrato ad agosto.

L.

– Ultimi post simili:

[2018-08] The Predator su “Empire” (3)

Traduco la terza parte di un lungo speciale con cui la rivista “Empire” (Australasia) presenta una vasta anteprima del film di Shane Black.
Siccome la rivista non ha una mazza da dire sul film in questione, ne approfitta per dedicare l’80% dello spazio al Predator originale, che comunque ci va bene!


Monster Squad

di Alex Godfrey

da “Empire” (Australasia), agosto 2018

Gli artisti del Predator originale
sull’evoluzione della loro macabra creatura

1. Monstrous Monster

Una compagnia chiamata Boss Film aveva originariamente il compito di creare la il costume del Predator per poi adattarlo su Jean-Claude Van Damme: fu un disastro sin dall’inizio. «Steve Johnson della Boss Film non era contento del risultato», dice Steve Wang, scultore. «Continuava a lamentarsi del pessimo design ma era costretto a farselo piacere perché proveniva dallo studio. Il problema più grande, evidente a tutti sin dal primo giorno, era il fatto che aveva queste gambe lunghe e la tecnologia dell’epoca non era in grado di gestirle: non si poteva camminare in quel costume, né tanto meno nel mezzo della giungla. Era semplicemente una pessima idea sin dall’inizio.»

Rarissima foto di scena con Van Damme “impredatorato”


2. Belgian vs Predator

Quando nella giungla messicana venne rivelato il costume, gli animi subito si scaldarono. L’aspirante star marziale Van Damme odiò quell’esperienza. «Si dice che si lamentasse perché il costume gli copriva il volto», dice Wang, «in quanto lui sapeva che sarebbe diventato una grande star. Pensarono fosse divertente: “Nessuno ti ha detto che devi interpretare un mostro?”» Inoltre recitare in quel costume era fisicamente provante. «Ho sentito che era claustrofobico», dice Wang. «Quindi ogni volta che gli mettevano il costume addosso si paralizzava.» Van Damme passò due orribili giorni sul set, e senza dubbio fu sollevato di fuggire da quell’esperienza, con quella creatura impossibile. Nel film rimane solo un’inquadratura di Van Damme con il costume del Predator invisibile, quando la creatura trascina Shane Black alla sua morte.

Carl Weathers e Van Damme in una celebre prova “di braccia”


3. High Concept

Con le riprese ferme per via della creatura, per creare un nuovo Predator venne ingaggiato Stan Winston, grazie al suo successo con Aliens (1986) e alla sua amicizia con Arnold Schwarzenegger. Un designer di nome Alan Munro aveva dipinto il Predator come un soldato umanoide futuristico con i dreadlocks, e a Winston fu chiesto di disegnare la faccia sotto la maschera. «Fu posta l’enfasi sul concetto “questa roba deve funzionare”», racconta Matt, il figlio di Stan Winston, «perché il design della Boss Film è improponibile. E papà disse: «Se dobbiamo lavorare con un tizio in costume, almeno diamo il meglio con la faccia.»


4. No sleep till Mexico

Steve Wang

Con lo Stan Winston Studio in pieno lavoro, e Winston concentrato sul suo debutto registico Pumpkinhead (1987), un gruppo ristretto – Steve Wang, Matt Rose e Shannon Shea – aveva otto settimane per costruire il Predator partendo dagli schizzi. «Era folle, letteralmente non dormimmo per tre giorni per rientrare nei tempi», racconta Wang. «Oh mio Dio, non ricordo neanche più quante ore ci passammo», singhiozza Shea. «Anni dopo lavoravo a Predators ed uno dei pittori stava dicendo quanto ammirasse Steve Wang e voleva dipingere il nuovo Predator con la stessa sua passione, ed io dissi: “Be’, allora ti basta non staccare mai: Steve e Matt non staccavano mai e dormivano sul divano”.» Rose appare ancora spaventato: «È stato folle», dice. «Questa cosa ci distrusse tutti. Lavoravamo senza sosta e non potevamo andare a casa. Erano altri tempi, non certo romantici come molti pensano.»


5. Blades of Glory

Il regista John McTiernan disse a Winston che voleva un Predator più tecnologico, così Wang provvide a disegnare delle lame per il braccio della creatura, per via della sua passione per certi “mutanti pelosi”. «Ero un grandissimo fan di Wolverine e in un certo modo l’ho copiato», ride. «Ero un ragazzone che amava i supereroi, così mi sono detto: mettiamoci delle lame!» Wang prese ispirazioni da ovunque. Per la pittura dell’armatura fu d’ispirazione… una pozzanghera. «Steve era così frustrato perché non riusciva ad ottenere la giusta cromatura», racconta Rose. «Erano gli anni Ottanta e tutti era cromato o d’oro o in ottone: una noia. Stava perdendo la testa. Stavamo camminando e d’un tratto si fermò, indicando per terra e dicendo “Eccolo!” E lì c’era questa pozzanghera. Pensai: “È fatta, Steve è completamente impazzito”. Ma la pozzanghera era d’olio di motore il che dava un bell’effetto arcobaleno. Disse: “Ecco il colore dell’armatura”. E così fu.»


6. Face Ache

Le mandibole del Predator provengono da una fonte insospettabile. Volando ad una convention su Aliens in Giappone insieme a James Cameron, Winston buttò giù delle idee e Cameron buttò un’occhiata. «James sbirciò da dietro le spalle di mio padre mentre lui stava buttando giù degli schizzi», racconta Winston figlio, «e disse “Ho sempre voluto vedere delle mandibole su un mostro”. E papà fece la prova.» Con il design pronto, Winston assegnò a Richard Landon il compito di costruire la meccanica. «Non avevo esperienza di meccanica radiocontrollata», dice Landon. «Avevo solo costruito meccanismi controllati via cavo. Ma Stan disse: “Voglio che tu lo faccia”, ed io lo feci.» Le tensioni dunque salivano. «Stan chiese a Richard di fare prima quel meccanismo, poi disse a me di costruirci sopra la scultura», ricorda Rose. «E io dissi “No!” Avevo 21 anni ed ero stufo. Dissi: “Non abbiamo tempo per questa assurdità. L’ho scolpito e Richard lo adatterà: prendere o lasciare”. La testa è troppo grande ma prima lo era di più, anche per le proporzioni di Kevin Peter Hall: fu fortunato che io avessi detto quel no, perché la testa sarebbe risultata grande una volta e mezza.»

Kevin Peter Hall a bocca aperta


7. Claw Lore

Un modellista di nome Wayne Sturm aveva creato il modellino 3D del Predator, e al lato della caviglia c’era un artiglio. Rose, dice Wang, curò i dettagli ma in realtà le origini dell’artiglio rimangono fumose. «Le cose accadevano in fretta e molte volte abbiamo fatto le cose così come venivano», dice Wang. «Il concetto era letteralmente “Un artiglio è figo, mettiamoci un artiglio”. Nessuno fece domande. Un sacco di cose iconiche di quei giorni sono nate perché la gente ha fatto cazzate, e questo è su schermo». Shea è d’accordo, sebbene la sua motivazione sia il “panico puro”. «Non ricordo se il disegno originale del Predator prevedesse dei sandali, non so quando siano usciti fuori, ma Matt l’ha scolpito con i sandali. Il Predator sapeva rendersi invisibile, poteva spostarsi per l’universo e in pratica indossava dei Birkenstocks. Uno potrebbe pensare che indossi qualcosa di più sostanzioso.»


8. The Man in the Latex Mask

L’altezza di Kevin Peter Hall era perfetta per il Predator, e il costume era fatto per sfruttare i suoi difetti. «Kevin era molto alto ma la parte superiore del suo corpo era piccola, rispetto alle gambe», ricorda Wang. «Volevo che il Predator avesse una muscolatura da ballerino, non come quella di Arnold, perché doveva arrampicarsi sugli alberi. Così feci la parte superiore del corpo un po’ più grande per bilanciare le gambe». Shea ricorda come dovettero infilare l’attore nel costume senza neanche un millimetro di spazio in più. «Devi fare il costume più stretto possibile perché cada bene sul corpo e non si arricci sui gomiti o sulle spalle. Dovemmo versare della gelatina su Kevin per potergli infilare il costume.»


9. Explosive Action

Sul set, in costume, Hall ha contagiato tutti con il suo entusiasmo. «Kevin era eccezionale», dice Wang. «Pensavamo che il Predator dovesse essere più aggressivo, e più veloce, mentre i movimenti di Kevin erano più metodici, più aggraziati». Fortunatamente, l’attore sopravvisse a morte certa quando i razzi del Predator gli esplosero in faccia. «Il cannone da spalla doveva sparare al roditore che fuggiva via», ricorda Landon, «ma invece di un singolo colpo esplose in una fiammata che ricoprì la testa di Kevin, provocando una nube di fumo grande quando un’auto. Io ero a dieci metri di distanza eppure una scheggia mi colpì il collo, facendomi sanguinare. Il cannone era completamente distrutto, vaporizzato come un enorme fuoco d’artificio. Eravamo tutti nel panico, poi Kevin esce fuori dalla nube di fumo e dice “Che è successo?” Aveva indosso la testa del Predator che era costruita su un elmetto da football: non lo sapeva, ma aveva un casco protettivo.»


10. Predator vs Predators

Una delle prime scene girate del film è stata quella del Predator che emerge dalle acque del lago. Filmata in sezioni per due settimane, per sfruttare quel breve momento di luce magica che la giungla forniva ogni giorno, dei subacquei ogni volta dovevano trascinare Hall sott’acqua per farlo risalire: il problema più grosso era quello… strisciante. «Quel dannato lago era pieno di serpenti», ricorda Rose. «Velenosi, mortali. Non sto scherzando. Li chiamavano “due passi”, perché se ti mordevano potevi fare solo due passi prima di morire. Ce ne passò davanti uno piccolo che Brian Simpson [addetto agli effetti della creatura] uccise davvero molto velocemente, tirando fuori un coltello e tagliando il serpente a metà. Ci stava girando intorno da circa mezz’ora, e quel lago era pieno di altri come lui! Io non volevo neanche avvicinarmi a quel dannato lago, ma Kevin non era nervoso e ci si immergeva tranquillamente.»

Tutti nel lago dei serpenti assassini


11. Dad’s Frankenstein

Tutta la troupe parla di Winston con grande affetto. «È stato davvero il mio mentore», dice Wang. «Mi ha insegnato tante lezioni di vita e ha condiviso molto del suo sapere con me. Ho lavorato duro e ho cercato di renderlo fiero.»

Shea parla in modo similare. «Stan era come un padre per me. Eravamo giovani e guardavamo a lui per assomigliargli. Era così carismatico e generoso. Di solito diceva “Metto questo film multi-milionario nelle vostre mani, e voi dovrete farlo”. E lo diceva a noi tre ragazzini!»Intanto il figlio di Winston ricorda quanto fosse orgoglioso il padre delle proprie creature. «Il Predator rimane uno dei titani fra i molti personaggi che sono usciti fuori dallo Stan Winston Studio», dice. «È diventato davvero un personaggio iconico: in un certo senso era il Frankenstein di mio padre. È apparso in molti seguiti, ha vissuto avventure a fumetti e in videogiochi. Era unico, per lui. L’ha disegnato e il suo team ha costruito il primo esemplare. Questi artisti non hanno dormito per aiutare papà a renderlo reale.»

Il Maestro de la sua Creatura


L.

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[2018-08] The Predator su “Empire” (2)

Traduco la seconda parte di un lungo speciale con cui la rivista “Empire” (Australasia) presenta una vasta anteprima del film di Shane Black.


The Hunt Begins

di Jim Thomas

da “Empire” (Australasia), agosto 2018

Lo sceneggiatore originale di Predator, Jim Thomas,
ripercorre l’improbabile storia dell’origine
di uno dei più grandi mostri del cinema

[Ricodo che nel 2002 Jim e John Thomas raccontano il loro lavoro
nell’audio-commentario dell’edizione DVD speciale di Predator. Nota etrusca]

La storia di ogni progetto cinematografico è, nel migliore dei casi, un’esperienza alla Rashomon. Tutto dipende dal punto di vista dell’osservatore o di chi vi partecipa. Il mio è solo uno dei punti di vista, ma come tutti i film inizia con una sceneggiatura.

L’evoluzione di Predator è interessante per la semplice ragione che io e mio fratello John, come scrittori esordienti, abbiamo venduto un copione specifico ad una grande casa cinematografica senza l’aiuto di un agente o di un avvocato, e l’abbiamo visto andare in produzione nello stesso anno. Un evento raro ad Hollywood. La nostra storia parla del momento giusto e del soggetto giusto, di perseveranza ed una certa buona dose di fortuna.

Un editor del “The Hollywood Reporter” recentemente mi ha detto che gira una leggenda, secondo la quale io e mio fratello ci siamo intrufolati negli uffici della 20th Century Fox e abbiamo infilato copioni sotto le porte di produttori e dirigenti. È solo un mito, ma in realtà non l’abbiamo fatto… perché non ci abbiamo pensato.

Io e mio fratello John eravamo entrambi bagnini della città di Los Angeles, ed io vivevo in una piccola camera di una vecchia casa sulla spiaggia a Marina del Rey. Avevo scritto diverse sceneggiatura ed avevo un buon senso della forma e dello stile, ed ho avuto io in pratica l’idea di Predator. Mio fratello si stava rimettendo dopo un incidente subìto mentre si era lanciato dalla sua torretta per un salvataggio in mare. Gli chiesi se volesse collaborare e disse di sì, così scegliemmo l’ufficio più comodo in cui lavorare: la spiaggia. Con una vecchia bobina per il via cavo come tavolo ed un ombrellone come tetto passammo i successivi sei mesi a scrivere e riscrivere il copione.

Il succo della storia era: “Come sarebbe essere cacciati da uno sportivo dilettante extraterrestre, che si comporta con noi come noi ci comportiamo con i leoni in Africa?” In effetti, il titolo originale della sceneggiatura era Hunter [“Cacciatore”]. La prima scena, mai girata, si svolgeva all’interno dell’astronave e mostrava uno schermo con le indicazioni-guida per raggiungere la Terra, poi un’analisi bio-meccanica di un essere umano, vestito da soldato. Lo schermo poi si ferma su un luogo del Centro America e passiamo alla Terra con l’entrata in scena della nostra squadra.

Volevamo evitare per quanto possibile una storia che prevedesse un tizio con un costume di gomma a forma d’alieno. Avevamo bisogno di un personaggio “vero” per il Predator, che avesse il proprio carattere, la propria personalità e ovviamente punti deboli. I film migliori con un tizio in costume di gomma sono quelli che tengono la creatura il più possibile nascosta, mostrandola solo per particolari ravvicinati: Lo Squalo (1975) è un perfetto esempio, Alien (1979) è un altro, mostrando la creatura solo in spazi angusti e bui.

Il nostro approccio era quello di mostrare il Predator “a tappe”. La prima “apparizione”, mai girata probabilmente perché la CGI era ancora a livelli troppo primordiali, era nella giungla folta. L’obiettivo si focalizzava sui soldati che si muovevano silenziosamente per la vegetazione, poi una farfalla si posa in un punto, battendo le ali, e poi vola via… lasciando dietro di sé una sua immagine che lentamente svanisce. Poi quel punto dov’era posata la farfalla inizia a muoversi.

Non mostravamo il Predator per intero fino alla fine del primo atto, poi solo la sua vista a raggi infrarossi e la sua capacità di ripetere i suoni. L’effetto di mimetizzazione viene mostrato quando il Predator fa il suo primo attacco, contro Shane Black. Dopo mostriamo che sotto il camuffamento c’è un vero guerriero alieno: un cacciatore intelligente e calcolatore.

Tenendo il meglio per la fine, il volto della creatura aliena si mostra per ultimo, grazie al lavoro di Stan Winston che è andato ben oltre la nostra immaginazione. Avevamo pensato a qualcosa più flessuoso e scimmiesco, ma quando vedemmo la creazione di Winston abbiamo dovuto ammettere che era imbattibile. Sebbene si trattasse alla fine di un tizio in costume di gomma.

~

Una volta che avevamo in mano una stesura pulita, io e mio fratello dovevamo affrontare il serio problema di venderla. Scriverla era stata la parte divertente. Senza avere alcuna raccomandazione sotto mano potevano solo scrivere lettere di accompagno: «Caro …, questa è la storia di un cacciatore extraterrestre che arriva su questo pianeta per una stagione di caccia alle prede più pericolose: soldati in azione nel Centro America». Un testo breve e conciso, e si sperava intrigante. La reazione è stata travolgente. Credo di aver collezionato più di cento lettere di rigetto, provenienti da ogni studio, produttore, avvocato ed agente che io sia riuscito a contattare.

Lavoravo part-time come tecnico, elettricista e tecnico del suono in piccole produzioni di spot commerciali, il che mi faceva sentire coinvolto nell’industria cinematografica. Un amico direttore della fotografia mi disse di conoscere qualcuno che poteva avere dei contatti alla 20th Century Fox. Incontrai il tizio, che uscì fuori essere giusto uno sgaloppino, gli diedi il copione accettai la percentuale che propose. Non avevo molte speranze, ma in fondo cosa avevamo da perdere?

Il suo contatto alla Fox uscì fuori che era uno di quelli che valutano i copioni, ed è qui che la Dea Bendata ha piazzato la sua mossa: uscì fuori che proprio in quel momento stava avvenendo un cambiamento ai vertici della Fox, con un amministratore che subentrava ad un altro. Il copione piacque al nostro contatto ma non c’era nessun produttore a cui proporlo, così lo mise da parte scrivendoci “Da leggere”.

Un giovane ed ambizioso dirigente trovò il copione sulla sua scrivania, lo lesse e gli piacque: era il suo primo progetto. La nostra vera fortuna in realtà è stato il fatto che il nuovo presidente era Larry Gordon, produttore di successo nonché allievo di Roger Corman, e Predator era proprio il suo tipo di sceneggiatura. La tempistica poteva diventare fondamentale.

Un paio di mesi dopo tornavo da una corsa sulla spiaggia quando il telefono squillò. Era un tizio che si presentò come capo del settore business affairs della 20th Century Fox e disse che volevano comprare il nostro copione, assumendoci per riscriverlo. Uno di quei momenti incredibili che non puoi più dimenticare.

~

L’elemento successivo del processo è la fase di sviluppo della sceneggiatura, che per molti scrittori può essere un incubo.  Per fortuna nostra quel momento ci è stato risparmiato, visto che sin dall’inizio al progetto è stato assegnato un regista. Geoff Murphy era noto come lo Spielberg della Nuova Zelanda, ed era nuovo di Hollywood. Abbiamo passato con lui i successivi mesi alla Fox per preparare la sceneggiatura in vista della produzione. Stavamo vivendo il sogno, o almeno così pensavamo.

Quando venne ingaggiato Arnold Schwarzenegger tutto dovette fermarsi di botto, per colpa proprio di Conan il barbaro. Geoff era stato preso in considerazione come possibile regista del nuovo film di Conan, ma nel suo spirito neozelandese si era riferito ad Arnold come Conan the Librarian, che a quanto pare Arnold non trovò affatto divertente: quindi Geoff era fuori dal progetto, e ben presto avevano un nuovo regista con cui lavorare, John McTiernan.

[Chissà se è a questo episodio che si rifà il comico “Weird Al” Yankovic, che nel suo UHF – I vidioti (1989) fra i vari sketch ne inserisce uno intitolato proprio Conan the Librarian, con il muscoloso cimmero a guardia degli scaffali di una biblioteca! Nota etrusca.]

Una volta assunto il regista, quello che spesso accade è che legge il copione e dice: “Ecco come la vedo io”, il che essenzialmente significa una riscrittura, e spesso una completa riscrittura. Era nel nostro destino. Il problema era che eravamo totalmente bloccati, una volta saputo come John voleva che modificassimo la nostra storia. Semplicemente non funzionava. E per di più non capivamo proprio perché il copione doveva essere modificato in modo così radicale. Ma il regista ha in mano il film e così, con riluttanza, ci siamo allontanati dal progetto. Con la morte nel cuore. Era stata una bella cavalcata, finché era durata.

Ci giunse notizia che lo studio aveva ingaggiato David Webb Peoples, co-sceneggiatore di Blade Runner (1982), per riscrivere il copione basandosi sulle annotazioni di John McTiernan. Grandioso. Blade Runner. Così firmammo un contratto con la Disney e andammo avanti con le nostre carriere in erba nell’industria cinematografica.

E poi ci fu un’altra telefonata memorabile, questa volta da parte del nuovo agente dell’ICM, Bill Block (è facile riceverne una dopo che hai venduto una sceneggiatura. Fidatevi, escono fuori come scarafaggi!) «La nuova sceneggiatura è pronta», ha detto, «e lo studio la odia. Vi vogliono indietro, vi daranno più soldi e vogliono che andiate in Messico per le riprese». Non poteva essere una telefonata più dolce di questa. Eravamo tornati [we were back], come avrebbe detto George Costanza…

~

Il nostro primo incontro con Arnold Schwarzenegger è avvenuto alla villa di Beverly Hills di Marvin Davis, il petroliere miliardario che all’epoca possedeva la Fox e il cui figlio, John, era il produttore del film. Una volta superate le guardie all’ingresso, ci chiedemmo dove mai si sarebbe svolta la riunione in un posto del genere. Nel salone, nella biblioteca, nella stanza del biliardo? No, nella vasca idromassaggio, e naturalmente tutti nudi, con Arnold perennemente col sigaro in bocca.

Nonostante il suo strano senso dell’umorismo, Arnold è un tipo molto in gambe e intuitivo, e nonostante la situazione voleva sul serio la nostra opinione sul personaggio che doveva interpretare. Io dissi: «Hai appena fatto un film intitolato Commando, nel quale entri in scena portando un intero tronco sulla spalla, e stringendo una motosega nell’altra. Questo rifermento a Paul Bunyan [corpulento taglialegna dell’immaginario collettivo americano. Nota etrusca] ci dice subito che la storia avrà una certa dose di umorismo. Ci sarà azione e proiettili ed esplosioni ma non succederà davvero mai niente a te. Se invece interpreterai un soldato qualunque, una persona vera che possa sanguinare e morire, allora ci sarà vera tensione».

Sembrò recepire il messaggio e a suo merito credo che abbia interpretato davvero un soldato qualunque, senza alcuna autoironia. L’ultima scena con Arnold sull’elicottero non è la tipica fine di un suo film: questo tizio è davvero sopravvissuto ad una minaccia di morte.

Intanto l’intrigo hollywoodiano continuava. Scorrendo l’elenco degli attori vedemmo il nome di un giovane scrittore, Shane Black, nel ruolo dell’addetto alle comunicazioni Hawkins. Sapevamo che Shane era uno degli sceneggiatori che la Fox aveva contattato per riscrivere il copione e che, per qualche ragione, aveva rifiutato. Scoprimmo che il produttore, Joel Silver, aveva ingaggiato Shane come attore nel film così da avere uno sceneggiatore di riserva sotto mano, nel caso che noi gli dessimo dei problemi a riprese iniziate. E l’ironia fu che mentre eravamo a Puerto Vallarta, dove gran parte del film è stata girata, Joel ci passò la copia di una sceneggiatura scritta da Shane, dal titolo Lethal Weapon, il film successivo da girare e che probabilmente andava riscritto. Per fortuna non c’è stata alcuna riscrittura e il resto è storia.

Shane ha aggiunto alcune battute colorite e gliene ho riconosciuto i meriti. Ha appena finito di girare The Predator e auguriamo il meglio a lui e al franchise. Tutto può succedere ad Hollywood, e succede.

~

Così iniziò l’incredibile avventura dei successivi cinque-sei mesi in Messico, un’esperienza che ricorderò per sempre. Andavamo in giro con questo gruppo di “uomini della giungla” ogni giorno (due dei quali sono in seguito diventati governatori), gli stuntmen, la gente della produzione proveniente da Stati Uniti, Australia e Messico, nella splendida cornice di Puerto Vallarta. Fu un’esperienza unica e l’ho amata davvero in ogni singolo momento.

All’epoca non avevamo idea che il film sarebbe diventato un’icona del genere, che avrebbe avuto una vita propria e sarebbe diventato parte della cultura collettiva. Fu ad un Comic-Con, mentre promuovevo Predator 2, che per la prima volta ho visto il tatuaggio di un Predator, che mi sembrò un’idea balzana. Ora se googli “Predator tatoos” troverai pagine e pagine di tatuaggi, alcuni davvero di grande effetto.

L’entità di ciò che era nato dalla nostra sceneggiatura però l’abbiamo avvertita in pieno quando alcuni anni dopo sono andato a visitare il negozio di Stan Winston. All’entrata aveva messo una galleria di sue creazioni, come fossero statue degli antichi romani: il Predator di due metri e mezzo, l’Alien e il Terminator. Erano diventati parte del nostro immaginario, al pari dei Ciclopi, del Minotauro, dei Grendel e degli altri mostri che li hanno preceduti. Le creature fantastiche che nascono dalle nostre paure primitive dell’ignoto, del buio oltre la porta.


L.

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[2018-08] The Predator su “Empire” (1)

Traduco la prima parte di un lungo speciale con cui la rivista “Empire” (Australasia) presenta una vasta anteprima del film di Shane Black.


The Alien King

di James Dyer

da “Empire” (Australasia), agosto 2018

Con un nuovo gruppo di soldati e una minaccia aliena potenziata,
The Predator mira a riportare un mostro iconico alla sua antica gloria.
Per il regista Shane Black, si tratta di riprendere lo spirito dell’87

Una luce rossa scende dal cielo mentre gli attori Boyd Holbrook e Trevante Rhodes guardano in alto imbambolati. Un elicottero, rosa come il sedere di un babbuino, si muove nell’aria per atterrare ad un passo da loro, un ghignante Keegan-Michael Key si sbraccia agitato dall’interno rosa. Dal veicolo con la fusoliera rosa si vede la silhouette di una donna nuda, con le parole “Il mio segreto” e “Mandata dal Cielo” che seguono le sue curve.

«Be’, è fantasioso», osserva Olivia Munn, mentre insieme a Rhodes ed Holbrook si mettono le armi a tracolla, afferrano le borse e salgono sull’elicottero che sembra uscito da una fiera di sexy toys.

«Cosa ti aspettavi?» dice Rhodes, ghignando fra una ripresa e l’altra. «Questo è un film di Shane Black, amico.»

Agli inizi degli anni Novanta Black era il re indiscusso della sceneggiatura hollywoodiana. I suoi copioni, testimoni di un’infanzia passata a leggere romanzi pulp con la stessa velocità con cui venivano stampati, erano cavalcate d’azione che non voltavano mai le spalle all’assurdo, con punte di umorismo nero e dialoghi pungenti. Non passò molto che le sue parole valessero oro, facendogli guadagnare 1,75 milioni per L’ultimo boy scout (1991), che sono niente in confronto ai 4 milioni di dollari nel 1994, quando ha venduto la sceneggiatura per il futuro Spy (1996).

Il biglietto da visita di Black, più che l’umorismo o le battutacce, è il miscuglio di generi. Quando un personaggio di Black gioca alla roulette russa ci sono cervella sparse sulla parete già al primo colpo. Quando l’investigatore rompe una finestra con il pugno, finisce al pronto soccorso. E quando un super cattivo è smascherato, esce fuori che è Trevor Slattery [il finto Mandarino di Iron Man 3]. Non è poi certo una sorpresa che quando un gruppo di soldati congedati ha bisogno di un trasporto rapido, l’unica compagnia da cui rifornirsi è Air Dildo.

Tre decenni dopo che Black ha avuto il primo successo con la sceneggiatura di Arma letale (1987) il suo stile non ha perso un solo grammo. Fuori dal set, comunque, come il Murtaugh di Danny Glover lo scrittore ha iniziato a sentirsi un po’ troppo vecchio per questa merda.

«Raggiungi i 50 e ricordi di quando pensavi a come sarebbe stato, quando ne avevi 20», racconta stancamente. «Ed è così, ma speravo di aver avuto la stessa scintilla, gli stessi amici, gli stessi sentimenti di entusiasmo che avevo quand’ero giovane. Invece mi sentivo vecchio. Poi qualcuno alla Fox mi ha citato Predator.»

Le crisi di mezza età assumono varie forme, naturalmente. Alcuni si comprano una macchina sportiva, altri si fanno un’amante nata dopo l’Arma letale 4 del 1998. Per Black il momento “mangia, prega, ama” è arrivato sotto forma di dreadlocks, mandibole e un cannone da spalla che spara plasma. «Mi sono divertito un mondo a girare quel film», ricorda. «Camminare nel fango e giocare a fare il soldato. Per questo volevo rifarlo: di tutte le cose che avrei potuto scegliere come ritorno simbolico alla gioventù, è arrivato il Predator.»

A Black non è stata solo offerta la possibilità di rivisitare questa singolare esperienza giovanile, ma gli è stato anche detto che avrebbe potuto portare a bordo Fred Dekker, suo grande amico sin dai tempi scolastici, con il quale ha scritto Scuola di mostri negli anni Ottanta. Era perfetto. «Ho pensato “Devo farlo!”» ricorda. «Ritornare indietro nel tempo a quei giorni da ragazzini a Westwood, in cui stavamo in fila ad aspettare l’uscita de I predatori dell’arca perduta (1981) al National Theatre. Mi piaceva l’idea di tornare bambini, a giocare insieme a Fred. Ho pensato: sarà una bella avventura, un’occasione per sentirmi di nuovo giovane.»

~

Arrivano solo negli anni più caldi. E quest’anno è salita anche l’umidità. Quando “Empire” arriva la prima volta sul set di The Predator, in un remoto terreno fuori Vancouver, siamo parecchio lontani dalla giungla messicana.  Profonde tasche di fango ghiacciato risucchiano i nostri stivali isolanti (donatoci dal reparto attrezzature), e mentre scendiamo per il vialetto una pioggerellina implacabile ci martella la testa. È l’aprile del 2017, 35° giorno di riprese e il cacciatore definitivo è stato colto dal maltempo. Le riprese sono ferme da tre giorni con giusto una pausa fra un diluvio e l’altro, e gli animi sono provati.

«Che cazzo di tempo, amico», grugnisce Thomas Janes, masticando un sigaro spento della dimensione di una zucchina. «Un tempo del genere non l’hanno mai visto nella storia di Vancouver. Tizi del posto, di 50 o 60 anni, dicono di non aver mai visto una merda del genere. La programmazione delle riprese è fottuta!»

Oggi comunque il Team Predator torna in azione. Gru articolate con enormi teli di plastica sono state piazzate lungo il torrente e, con un pallido raggio di sole che si affaccia timido fra le nuvole, si torna a girare. Fuori dal set Holbrook e Rhodes si appoggiano ad un camper malconcio. Fucili e pistole sono ovunque, al suo interno, con tanto di cartucciere e munizioni sugli scaffali: se volete andare in vacanza in una zona di guerra, questo è il mezzo che fa per voi. Black è accampato fuori, in una tenda, con un impermeabile nero leggero contro il freddo. Ad essere onesti, non sembra molto ringiovanito: curvato dietro un monitor, succhia furiosamente la sua sigaretta elettronica, fissando con invidia Rhodes che invece prende ampie e profonde boccate dalla sua sigaretta come Dio comanda.

«Lui è l’unico del film a cui è consentito fumare», spiega Black. «Puoi tagliare la testa alla gente, puoi scuoiarne i corpi e far esplodere i loro fottuti cervelli, ma nell’istante in cui qualcuno si accende una sigaretta gli studios ti cacciano a calci in culo.» Prende un’altra boccata e uno sbuffo di vapore gli avvolge la testa. «Uso questa roba elettrica perché sto disperatamente cercando di smettere. Ma questo è un film di guerra, capisci? Ci sono soldati: che altro dovrebbero fare?»

Guidata dal Quinn McKenna di Holbrook, la banda armata di Black è quanto di più lontano ci sia dal gruppo di recupero e salvataggio di Dutch Schaefer. Un gruppo di reietti e disadattati chiamati affettuosamente “I Loonies”, uniti dalle circostanze in un bus che deve portarli in un reparto psichiatrico dell’esercito, quando viene attaccato dall’alieno. «Il primo film era tutto un pacche sulle spalle con enormi armi potenziate», dice Black, «il che era molto divertente. Insomma, a chi non piace una cosa del genere? Ma io volevo qualcosa di più snello e più cattivo.»

Formati da Rhodes, Jane e Key, con Alie Allen ed Augusto Aguilera, I Loonies sono proprio questo: ognuno è ferito a modo suo con i propri demoni da combattere. «Fondamentalmente si tratta di soldati emarginati, dimenticati, che hanno la possibilità di farsi valere come i soldati d’élite di Arnold. Che succede se prendi un gruppo di perdenti e li mandi contro il Predator?»

Nella scena che stiamo guardando, i Loonies stanno cercando di raggiungere Rory, il figlio di McKenna, rapito dallo stesso mostro che mette in pericolo la vita del Predator. Nel film non c’è l’equivalente della mitragliatrice di Jesse Ventura, ma lo stesso abbondano armi militari, come M4, MP5 e pistole Skorpion che passano di mano in mano come caramelle. Anche Olivia Munn, che interpreta la biologa Casey Bracket, usa in modo cazzuto la propria arma mostrando competenza. «È assurdo che le donne siano mostrare o come Lara Croft o come casalinghe», obietta l’attrice. «Ogni volta che vedi un uomo in un film, nessuno si chiede “Come fa a conoscere il funzionamento di quell’arma?” Così mi sono detta: “E se lei invece semplicemente già sapeva usare l’arma?”»

«Non è un film anni Ottanta», interviene Holbrook, «pieno di stereotipi. Sai, gli indiani con la fascia in testa, i cowboy che masticano tabacco e l’intelligente che porta gli occhiali. Non funziona più così. Tanto di cappello al film originale ma questo affonda le radici nella realtà. Stiamo lasciando che la storia parli da sola, piuttosto che scriverla mediante grosse armi e muscoli oliati.»

~

Puerto Vallarta, Messico, 1986. Uno Schwarzenegger mimetizzato alza in aria il suo enorme pugno e quattro uomini si immobilizzano. Poi muove le sue dita e il commando riprende a muoversi, assumendo posizioni difensive. Davanti a lui, Sonny Landham è fermo, solo, ad ascoltare la giungla bisbigliare: è rigido dalla tensione e il sudore cola dal suo viso.

«Che succede?» bisbiglia Schwarzenegger, avvicinandoglisi dietro le spalle. «Cos’è che non va?»

«C’è qualcosa fra quegli alberi…» mormora Landham, mettendo enfasi nelle sue parole. Entrambi gli uomini studiano il fogliame con attenzione. La camera segue il loro sguardo nella giungla indistinta. Senza preavviso, Landham comincia a correre, si infila in un cespuglio, si sbottona velocemente i pantaloni e comincia a svuotare l’intestino nel fogliame.

«Quella è la parte della scena che non si vede», ride Black, ricordando l’incidente. «Non ce la faceva più a trattenersi: acqua contaminata dell’hotel. Tutti erano malati, in quel film.»

Caldo soffocante, serpenti velenosi e diarrea erano compagni di riprese del Predator di John McTiernan. Malgrado questi disagi, il 25enne Black si è divertito un mondo.

Per nulla convinto del tono cupo della storia, il produttore Joel Silver aveva ordinato una nuova versione con più umorismo, ma non funzionava. In quanto script doctor, Black è stato allora ingaggiato per il film: riluttante a mettere le mani su una già ottima sceneggiatura, ha rifiutato. Dopo aver dato un’occhiata alla cittadina turistica messicana dov’era basata la produzione, ci ripensa se però lo fanno partecipare alle riprese: in questo modo, dice a Silver, sarà sempre disponibile se servisse un intervento al volo.

«Mi è sempre piaciuto il copione originale di Jim e John Thomas», dice Black. «Sapevo che lo studio avrebbe girato in tondo fino a tornare a quella versione, ed infatti è proprio ciò che è avvenuto.»

Così Black si è ritrovato davanti alla cinepresa, ad interpretare un soldato insieme alle star letteralmente più “grosse” di Hollywood. Circondato da petti depilati e braccia di dimensioni titaniche, il giovane sceneggiature era come l’unico scommettitore del SummerSlam del 1986. [Credo che la battuta si riferisca al fatto che il SummerSlam si è svolto nel 1988, ma in realtà non ne sono sicuro. Nota etrusca.]

«Poteva essere molto scoraggiante se non fosse stato così divertente. Non ce n’era uno antipatico, nel gruppo», ricorda. «Bill Duke e Jesse Ventura erano figure imponenti. Bill, questo ragazzone con occhi di fuoco, era un gigante gentile. E quando mio padre e mia madre sono venuti a visitare il set, Jesse ci ha portati tutti a cena. È stata una persona dolcissima.»

Principalmente Black ronzava attorno a Landham. Noto per non rispettare molto gli impegni, Landham era il punto debole della produzione: leggenda vuole che gli avessero affiancato un bodyguard per proteggere… gli altri da lui!

«Assunsero quel tizio per impedirgli di ubriacarsi!», ricorda Black. «Finché era sobrio andava tutto bene, ma da ubriaco era un pericolo. Io divenni la sua guardia del corpo de facto per diverse ragioni, fra le quali l’essere l’unico che riusciva a parlargli.»

Schwarzenegger ha passato quasi tutto il tempo a pompare i muscoli, quando non sfidava Ventura a misurarsi i bicipiti o quando non andava a cena con Maria Shriver, che ha sposato proprio durante le riprese. Intanto Carl Weathers continuava a fingere di non allenarsi, insistendo che il suo fisico era assolutamente naturale, quando invece sgattaiolava in palestra quando gli altri colleghi dormivano.

«Carl aveva appena fatto Rocky III. Ci portò ad una discoteca in città e quando partì Livin’ in America iniziò a ballare: i messicani impazzirono! Avevano appena visto il film al cinema e una delle star stava proprio lì, nella loro cittadina, a ballare.»

Attori grossi e con grosse personalità, gli uomini di Dutch erano una forza della natura davanti e dietro la cinepresa, la loro chimica da macho era così efficace che almeno metà film era a posto. Il problema era l’altra metà. Il mostro, il Predator: quello proprio non funzionava. Il costume da gamberone che indossava l’allora sconosciuto Jean-Claude Van Damme era ridicolo e lo pensavano tutti.

«Le decisioni che sono state prese sono state molto scivolose e frettolose», ricorda Black. «A cosa doveva assomigliare il mostro? Di sicuro questo fa schifo. Si poteva chiamare Stan Winston ma c’era davvero poco tempo. Alla fine la decisione è stata: “Fanculo, chiamate Winston: ha due settimane di tempo”.»

La produzione si fermò mentre Winston lavorava con l’aiuto di James Cameron, che ha messo la sua firma sulla bocca del Predator: una creatura ben differente stava prendendo forma.

~

«La mia parte preferita è quando vedi la faccia del Predator, dopo che si è tolto la maschera: è davvero figo! Perché è come un insetto ma non è un insetto: è un uomo insetto! E poi Arnold Schwarzenegger si azzuffa con lui corpo a corpo ed è spettacolare! Roba forte, davvero fo…»

Il giovane Jacob Tremblay, di dieci anni, lancia occhiate nervose alla madre. La signora Tremblay alza un sopracciglio, indicando che sta percorrendo un terreno friabile.

«Non posso dire quella parola», si affretta a dire il bambino, limitandosi a farne lo spelling fissando la madre.

Jacob Tremblay

Jacob Tremblay

Al di là della parola, il sentimento rimane. L’alieno di Winston può essere stato assemblato al volo, nottetempo, ma è diventato una delle creature più famose del cinema e subito un classico. Ora, in una stanza chiusa sul retro del reparto costumi, “Empire” finalmente si trova faccia a faccia con lui. El diablo que hace trofeos de los hombres, il demone che rende gli uomini trofei.

Il Predator, o Yautja come lo chiamano nell’universo espanso di fumetti, libri e videogiochi [Sbagliato! Nessun fumetto lo chiama così perché il nome Yautja esiste solo nella testa dei fan: preso da alcuni (pessimi) romanzi di S.D. Perry, solo dal 2014 ha iniziato timidamente ad affacciarsi anche in fonti “ufficiali”, in minima quantità: rimane un nome usato solo dai fan. E da Wikipedia. Nota etrusca.] è proprio come lo ricordiamo dal primo film: occhi infossati e imperlati, pelle chiazzata, rettiliana e mandibole spalancate che rivelano file di denti affilati. A parte il suo abbigliamento – un’armatura chiusa al posto della “rete da pesca” a cui eravamo abituati – il Predator è del tutto familiare: è un vecchio amico. Il che rappresenta un problema.

«La sfida è stata renderlo spaventoso», dice Black, «perché tutto imbacuccato è difficile renderlo una minaccia mentre i nostri eroi lo affrontano. Abbiamo dovuto creargli attorno anche una situazione in cui i Predator diventano di nuovo misteriosi e spaventosi.

Il duro lavoro di Black e Dekker ha avuto come risultato l’upgrade: il Predator plus. Più grande, più cattivo e crudele. Alto tre metri e nero come la notte, irto di spine, pelle maculata con armatura organica chitinosa: il prodotto di un DNA modificato dalle più mortali creature cacciate nei vari mondi. L’espressione definitiva del dominio del Predator: uno stronzo gigante.

«La nostra idea era che sul mondo dei Predator le cose non rimanessero sempre uguali», racconta Black. «Non è che si mettano in fila ordinata aspettando prossimo pullman per la Terra per cacciare un altro po’. Le cose si sono evolute.»

Il gradino successivo nell’evoluzione dei Predator mette a dura prova la mythology ed inevitabilmente alcune zone di internet sono andate a fuoco.

«Ci sono dei fan che diranno “Questo nuovo Predator fa schifo: ecco come avrei fatto io”, e cominceranno ad entrare nel dettaglio. Del tipo “Il Clan della Lama Nera – o qualcosa del genere – scopre che sono geneticamente inferiori allo Yautja Prime!” Davvero? Non importa quello che fai, ci sarà sempre un gruppo di fan che dirà “Fanculo, tizio di Iron Man 3! Quando il Predator si toglierà la maschera uscirà fuori Ben Kingsley?” No, ma è una battuta divertente: oggi l’ho sentita solo 12 volte.»

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Quando poi ci sediamo sul divano di Black siamo nella sua casa di Los Angeles. È il giugno del 2018 e il montaggio del film è in pratica terminato: manca solo di aggiungere gli effetti speciali nel finale poi è completo. Black si adagia sui cuscini, grattando la testa del suo bull terrier Ollie. Continua a fumare una sigaretta elettronica, ma con molto meno fervore. Qui, circondato da scaffali in noce pieni dei suoi amati romanzi polizieschi, Black è più rilassato e il suo viaggio della memoria è quasi completato.

«Non potevo sbagliarmi di più sulla parte divertente», dice con un sospiro: «se avessi saputo quanto sarebbe stato difficile e quanto tempo si sarebbe perso…»

Shane Black e il Predator

È stata una faticaccia, più lunga del previsto, con la data di uscita posticipata da febbraio a settembre e scene rigirate all’inizio di quest’anno. L’elicottero rosa di Black è stato rimpiazzato, con dispiacere, da un altrettanto vistoso ma meno appariscente elicottero del meteo («Per problemi legali con Victoria’s Secret, credo») e ampie sezioni del finale sono state modificate. Al contrario delle stupidaggini che girano in Rete, dice Black, il tempo aggiuntivo non è servito a salvare una produzione in crisi: le sue ragioni sono state molto più prosaiche.

«La prima volta che abbiamo girato il terzo atto era di giorno», spiega. «Semplicemente non funzionava, così mi sono detto: “Ummm, possiamo rifarlo di notte?”» La differenza era così sostanziosa? «Be’, sì», ammette Black. «Una differenza come dal giorno alla notte!»

The Predator non è stato le spensierato ritorno alla vita da ventenne che lui sperava, ma Black è felice del risultato. Ispirato, dice lui, dalla serie Stranger Things, che ha spremuto ogni singola goccia di nostalgia dall’horror anni Ottanta, Black ha adottato lo stesso sistema per l’action. Ha scritto una lettera d’amore alla sua giovinezza piena di richiami, omaggi e tutto ciò che ha amato del film che ha girato 31 anni fa.

«Volevo fare la raccolta definitiva [ultimate conglomeration]», dice, «mettere tutto in questo film, questa cavalcata selvaggia con un gruppo di sbandati che hanno l’ultima occasione di riappropriarsi della vita che si sono rovinati. Per andarsene in gloria [to go out in a blaze of glory].»

Un’avventura. Un’occasione di sentirsi giovani di nuovo.


L.

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