Tre decenni dopo che Black ha avuto il primo successo con la sceneggiatura di Arma letale (1987) il suo stile non ha perso un solo grammo. Fuori dal set, comunque, come il Murtaugh di Danny Glover lo scrittore ha iniziato a sentirsi un po’ troppo vecchio per questa merda.
«Raggiungi i 50 e ricordi di quando pensavi a come sarebbe stato, quando ne avevi 20», racconta stancamente. «Ed è così, ma speravo di aver avuto la stessa scintilla, gli stessi amici, gli stessi sentimenti di entusiasmo che avevo quand’ero giovane. Invece mi sentivo vecchio. Poi qualcuno alla Fox mi ha citato Predator.»
Le crisi di mezza età assumono varie forme, naturalmente. Alcuni si comprano una macchina sportiva, altri si fanno un’amante nata dopo l’Arma letale 4 del 1998. Per Black il momento “mangia, prega, ama” è arrivato sotto forma di dreadlocks, mandibole e un cannone da spalla che spara plasma. «Mi sono divertito un mondo a girare quel film», ricorda. «Camminare nel fango e giocare a fare il soldato. Per questo volevo rifarlo: di tutte le cose che avrei potuto scegliere come ritorno simbolico alla gioventù, è arrivato il Predator.»
A Black non è stata solo offerta la possibilità di rivisitare questa singolare esperienza giovanile, ma gli è stato anche detto che avrebbe potuto portare a bordo Fred Dekker, suo grande amico sin dai tempi scolastici, con il quale ha scritto Scuola di mostri negli anni Ottanta. Era perfetto. «Ho pensato “Devo farlo!”» ricorda. «Ritornare indietro nel tempo a quei giorni da ragazzini a Westwood, in cui stavamo in fila ad aspettare l’uscita de I predatori dell’arca perduta (1981) al National Theatre. Mi piaceva l’idea di tornare bambini, a giocare insieme a Fred. Ho pensato: sarà una bella avventura, un’occasione per sentirmi di nuovo giovane.»
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Arrivano solo negli anni più caldi. E quest’anno è salita anche l’umidità. Quando “Empire” arriva la prima volta sul set di The Predator, in un remoto terreno fuori Vancouver, siamo parecchio lontani dalla giungla messicana. Profonde tasche di fango ghiacciato risucchiano i nostri stivali isolanti (donatoci dal reparto attrezzature), e mentre scendiamo per il vialetto una pioggerellina implacabile ci martella la testa. È l’aprile del 2017, 35° giorno di riprese e il cacciatore definitivo è stato colto dal maltempo. Le riprese sono ferme da tre giorni con giusto una pausa fra un diluvio e l’altro, e gli animi sono provati.
«Che cazzo di tempo, amico», grugnisce Thomas Janes, masticando un sigaro spento della dimensione di una zucchina. «Un tempo del genere non l’hanno mai visto nella storia di Vancouver. Tizi del posto, di 50 o 60 anni, dicono di non aver mai visto una merda del genere. La programmazione delle riprese è fottuta!»
Oggi comunque il Team Predator torna in azione. Gru articolate con enormi teli di plastica sono state piazzate lungo il torrente e, con un pallido raggio di sole che si affaccia timido fra le nuvole, si torna a girare. Fuori dal set Holbrook e Rhodes si appoggiano ad un camper malconcio. Fucili e pistole sono ovunque, al suo interno, con tanto di cartucciere e munizioni sugli scaffali: se volete andare in vacanza in una zona di guerra, questo è il mezzo che fa per voi. Black è accampato fuori, in una tenda, con un impermeabile nero leggero contro il freddo. Ad essere onesti, non sembra molto ringiovanito: curvato dietro un monitor, succhia furiosamente la sua sigaretta elettronica, fissando con invidia Rhodes che invece prende ampie e profonde boccate dalla sua sigaretta come Dio comanda.
«Lui è l’unico del film a cui è consentito fumare», spiega Black. «Puoi tagliare la testa alla gente, puoi scuoiarne i corpi e far esplodere i loro fottuti cervelli, ma nell’istante in cui qualcuno si accende una sigaretta gli studios ti cacciano a calci in culo.» Prende un’altra boccata e uno sbuffo di vapore gli avvolge la testa. «Uso questa roba elettrica perché sto disperatamente cercando di smettere. Ma questo è un film di guerra, capisci? Ci sono soldati: che altro dovrebbero fare?»
Guidata dal Quinn McKenna di Holbrook, la banda armata di Black è quanto di più lontano ci sia dal gruppo di recupero e salvataggio di Dutch Schaefer. Un gruppo di reietti e disadattati chiamati affettuosamente “I Loonies”, uniti dalle circostanze in un bus che deve portarli in un reparto psichiatrico dell’esercito, quando viene attaccato dall’alieno. «Il primo film era tutto un pacche sulle spalle con enormi armi potenziate», dice Black, «il che era molto divertente. Insomma, a chi non piace una cosa del genere? Ma io volevo qualcosa di più snello e più cattivo.»
Formati da Rhodes, Jane e Key, con Alie Allen ed Augusto Aguilera, I Loonies sono proprio questo: ognuno è ferito a modo suo con i propri demoni da combattere. «Fondamentalmente si tratta di soldati emarginati, dimenticati, che hanno la possibilità di farsi valere come i soldati d’élite di Arnold. Che succede se prendi un gruppo di perdenti e li mandi contro il Predator?»
Nella scena che stiamo guardando, i Loonies stanno cercando di raggiungere Rory, il figlio di McKenna, rapito dallo stesso mostro che mette in pericolo la vita del Predator. Nel film non c’è l’equivalente della mitragliatrice di Jesse Ventura, ma lo stesso abbondano armi militari, come M4, MP5 e pistole Skorpion che passano di mano in mano come caramelle. Anche Olivia Munn, che interpreta la biologa Casey Bracket, usa in modo cazzuto la propria arma mostrando competenza. «È assurdo che le donne siano mostrare o come Lara Croft o come casalinghe», obietta l’attrice. «Ogni volta che vedi un uomo in un film, nessuno si chiede “Come fa a conoscere il funzionamento di quell’arma?” Così mi sono detta: “E se lei invece semplicemente già sapeva usare l’arma?”»
«Non è un film anni Ottanta», interviene Holbrook, «pieno di stereotipi. Sai, gli indiani con la fascia in testa, i cowboy che masticano tabacco e l’intelligente che porta gli occhiali. Non funziona più così. Tanto di cappello al film originale ma questo affonda le radici nella realtà. Stiamo lasciando che la storia parli da sola, piuttosto che scriverla mediante grosse armi e muscoli oliati.»
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Puerto Vallarta, Messico, 1986. Uno Schwarzenegger mimetizzato alza in aria il suo enorme pugno e quattro uomini si immobilizzano. Poi muove le sue dita e il commando riprende a muoversi, assumendo posizioni difensive. Davanti a lui, Sonny Landham è fermo, solo, ad ascoltare la giungla bisbigliare: è rigido dalla tensione e il sudore cola dal suo viso.
«Che succede?» bisbiglia Schwarzenegger, avvicinandoglisi dietro le spalle. «Cos’è che non va?»
«C’è qualcosa fra quegli alberi…» mormora Landham, mettendo enfasi nelle sue parole. Entrambi gli uomini studiano il fogliame con attenzione. La camera segue il loro sguardo nella giungla indistinta. Senza preavviso, Landham comincia a correre, si infila in un cespuglio, si sbottona velocemente i pantaloni e comincia a svuotare l’intestino nel fogliame.
«Quella è la parte della scena che non si vede», ride Black, ricordando l’incidente. «Non ce la faceva più a trattenersi: acqua contaminata dell’hotel. Tutti erano malati, in quel film.»
Caldo soffocante, serpenti velenosi e diarrea erano compagni di riprese del Predator di John McTiernan. Malgrado questi disagi, il 25enne Black si è divertito un mondo.
Per nulla convinto del tono cupo della storia, il produttore Joel Silver aveva ordinato una nuova versione con più umorismo, ma non funzionava. In quanto script doctor, Black è stato allora ingaggiato per il film: riluttante a mettere le mani su una già ottima sceneggiatura, ha rifiutato. Dopo aver dato un’occhiata alla cittadina turistica messicana dov’era basata la produzione, ci ripensa se però lo fanno partecipare alle riprese: in questo modo, dice a Silver, sarà sempre disponibile se servisse un intervento al volo.
«Mi è sempre piaciuto il copione originale di Jim e John Thomas», dice Black. «Sapevo che lo studio avrebbe girato in tondo fino a tornare a quella versione, ed infatti è proprio ciò che è avvenuto.»
Così Black si è ritrovato davanti alla cinepresa, ad interpretare un soldato insieme alle star letteralmente più “grosse” di Hollywood. Circondato da petti depilati e braccia di dimensioni titaniche, il giovane sceneggiature era come l’unico scommettitore del SummerSlam del 1986. [Credo che la battuta si riferisca al fatto che il SummerSlam si è svolto nel 1988, ma in realtà non ne sono sicuro. Nota etrusca.]
«Poteva essere molto scoraggiante se non fosse stato così divertente. Non ce n’era uno antipatico, nel gruppo», ricorda. «Bill Duke e Jesse Ventura erano figure imponenti. Bill, questo ragazzone con occhi di fuoco, era un gigante gentile. E quando mio padre e mia madre sono venuti a visitare il set, Jesse ci ha portati tutti a cena. È stata una persona dolcissima.»
Principalmente Black ronzava attorno a Landham. Noto per non rispettare molto gli impegni, Landham era il punto debole della produzione: leggenda vuole che gli avessero affiancato un bodyguard per proteggere… gli altri da lui!
«Assunsero quel tizio per impedirgli di ubriacarsi!», ricorda Black. «Finché era sobrio andava tutto bene, ma da ubriaco era un pericolo. Io divenni la sua guardia del corpo de facto per diverse ragioni, fra le quali l’essere l’unico che riusciva a parlargli.»
Schwarzenegger ha passato quasi tutto il tempo a pompare i muscoli, quando non sfidava Ventura a misurarsi i bicipiti o quando non andava a cena con Maria Shriver, che ha sposato proprio durante le riprese. Intanto Carl Weathers continuava a fingere di non allenarsi, insistendo che il suo fisico era assolutamente naturale, quando invece sgattaiolava in palestra quando gli altri colleghi dormivano.
«Carl aveva appena fatto Rocky III. Ci portò ad una discoteca in città e quando partì Livin’ in America iniziò a ballare: i messicani impazzirono! Avevano appena visto il film al cinema e una delle star stava proprio lì, nella loro cittadina, a ballare.»
Attori grossi e con grosse personalità, gli uomini di Dutch erano una forza della natura davanti e dietro la cinepresa, la loro chimica da macho era così efficace che almeno metà film era a posto. Il problema era l’altra metà. Il mostro, il Predator: quello proprio non funzionava. Il costume da gamberone che indossava l’allora sconosciuto Jean-Claude Van Damme era ridicolo e lo pensavano tutti.
«Le decisioni che sono state prese sono state molto scivolose e frettolose», ricorda Black. «A cosa doveva assomigliare il mostro? Di sicuro questo fa schifo. Si poteva chiamare Stan Winston ma c’era davvero poco tempo. Alla fine la decisione è stata: “Fanculo, chiamate Winston: ha due settimane di tempo”.»
La produzione si fermò mentre Winston lavorava con l’aiuto di James Cameron, che ha messo la sua firma sulla bocca del Predator: una creatura ben differente stava prendendo forma.
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«La mia parte preferita è quando vedi la faccia del Predator, dopo che si è tolto la maschera: è davvero figo! Perché è come un insetto ma non è un insetto: è un uomo insetto! E poi Arnold Schwarzenegger si azzuffa con lui corpo a corpo ed è spettacolare! Roba forte, davvero fo…»
Il giovane Jacob Tremblay, di dieci anni, lancia occhiate nervose alla madre. La signora Tremblay alza un sopracciglio, indicando che sta percorrendo un terreno friabile.
«Non posso dire quella parola», si affretta a dire il bambino, limitandosi a farne lo spelling fissando la madre.
Al di là della parola, il sentimento rimane. L’alieno di Winston può essere stato assemblato al volo, nottetempo, ma è diventato una delle creature più famose del cinema e subito un classico. Ora, in una stanza chiusa sul retro del reparto costumi, “Empire” finalmente si trova faccia a faccia con lui. El diablo que hace trofeos de los hombres, il demone che rende gli uomini trofei.
Il Predator, o Yautja come lo chiamano nell’universo espanso di fumetti, libri e videogiochi [Sbagliato! Nessun fumetto lo chiama così perché il nome Yautja esiste solo nella testa dei fan: preso da alcuni (pessimi) romanzi di S.D. Perry, solo dal 2014 ha iniziato timidamente ad affacciarsi anche in fonti “ufficiali”, in minima quantità: rimane un nome usato solo dai fan. E da Wikipedia. Nota etrusca.] è proprio come lo ricordiamo dal primo film: occhi infossati e imperlati, pelle chiazzata, rettiliana e mandibole spalancate che rivelano file di denti affilati. A parte il suo abbigliamento – un’armatura chiusa al posto della “rete da pesca” a cui eravamo abituati – il Predator è del tutto familiare: è un vecchio amico. Il che rappresenta un problema.
«La sfida è stata renderlo spaventoso», dice Black, «perché tutto imbacuccato è difficile renderlo una minaccia mentre i nostri eroi lo affrontano. Abbiamo dovuto creargli attorno anche una situazione in cui i Predator diventano di nuovo misteriosi e spaventosi.
Il duro lavoro di Black e Dekker ha avuto come risultato l’upgrade: il Predator plus. Più grande, più cattivo e crudele. Alto tre metri e nero come la notte, irto di spine, pelle maculata con armatura organica chitinosa: il prodotto di un DNA modificato dalle più mortali creature cacciate nei vari mondi. L’espressione definitiva del dominio del Predator: uno stronzo gigante.
«La nostra idea era che sul mondo dei Predator le cose non rimanessero sempre uguali», racconta Black. «Non è che si mettano in fila ordinata aspettando prossimo pullman per la Terra per cacciare un altro po’. Le cose si sono evolute.»
Il gradino successivo nell’evoluzione dei Predator mette a dura prova la mythology ed inevitabilmente alcune zone di internet sono andate a fuoco.
«Ci sono dei fan che diranno “Questo nuovo Predator fa schifo: ecco come avrei fatto io”, e cominceranno ad entrare nel dettaglio. Del tipo “Il Clan della Lama Nera – o qualcosa del genere – scopre che sono geneticamente inferiori allo Yautja Prime!” Davvero? Non importa quello che fai, ci sarà sempre un gruppo di fan che dirà “Fanculo, tizio di Iron Man 3! Quando il Predator si toglierà la maschera uscirà fuori Ben Kingsley?” No, ma è una battuta divertente: oggi l’ho sentita solo 12 volte.»
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Quando poi ci sediamo sul divano di Black siamo nella sua casa di Los Angeles. È il giugno del 2018 e il montaggio del film è in pratica terminato: manca solo di aggiungere gli effetti speciali nel finale poi è completo. Black si adagia sui cuscini, grattando la testa del suo bull terrier Ollie. Continua a fumare una sigaretta elettronica, ma con molto meno fervore. Qui, circondato da scaffali in noce pieni dei suoi amati romanzi polizieschi, Black è più rilassato e il suo viaggio della memoria è quasi completato.
«Non potevo sbagliarmi di più sulla parte divertente», dice con un sospiro: «se avessi saputo quanto sarebbe stato difficile e quanto tempo si sarebbe perso…»
L.