[2000-02] Walter Hill su “Cinefantastique”

Sul numero di febbraio 2000 (volume 31, n. 10) della rivista specialistica “Cinefantastique” il giornalista Dale Kutzera presenta un’intervista a Walter Hill sul set del film Supernova, che è uscito il precedente 14 gennaio nelle sale americane ma evidentemente all’epoca dell’intervista non erano ancora noti i problemi che porteranno Walter Hill a far cancellare il proprio nome dal progetto, in favore dello pseudonimo Thomas Lee.

Visto che il genere fantascientifico è uno dei rari non trattato da Hill, ad esclusione del primo Alien (1979), è chiaro che la discussione finisca nell’universo alieno: traduco il passaggio perché le dichiarazioni di Walter Hill sui film alieni sono rarissime.


Parte del lavoro di Hill è ridimensionare l’inevitabile paragone con Alien, visto che anche in quel film c’è una nave che risponde ad un segnale di soccorso e questo porta un’entità a bordo. «Sono storie molto diverse», ha detto Hill. «La saga di Alien si è evoluta in qualcosa di molto diverso rispetto a quando l’abbiamo iniziata. Sono stato molto coinvolto nel primo film, sebbene paradossalmente io abbia ricevuto meno crediti rispetto agli altri. Non ho avuto nulla a che fare con l’ultimo [Alien Resurrection, nota del giornalista]. Non l’ho neanche visto. Pensavo che avrebbero dovuto fermarsi al terzo. Sarebbe stata una conclusione onorevole di ciò che sarebbe dovuta essere una saga. Non ho mai capito la ragione di continuare se non per motivi di soldi.»


L.

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[1996-03] Stuart Gordon su “Cinefantastique” (V27) 7

Dopo che il compianto Stuart Gordon ci ha lasciati, è stato “scoperto” un film alieno che avrebbe girato per dei parchi a tema: come ho già raccontato, non esistevano prove che Gordon avesse davvero firmato Aliens: Ride at the Speed of Fright… finora!

Al di là delle tante voci di corridoio senza sostanza, ecco finalmente la prova che Gordon ha davvero diretto un gioiello alieno imperdibile.

Intervistato in occasione dell’uscita del film Space Truckers (1996) da “Cinefantastique” nell’aprile 1997, l’esperto di effetti speciali Paul Gentry afferma:

«Stuart [Gordon] pensava che il ride film di Aliens fosse una palestra per Space Truckers: un sacco di cose che abbiamo fatto per questo film le avevamo già fatte per quello alieno. Stuart non ha molta esperienza con la fanteria paramilitare che spara con grandi fucili, certe cose non le vedi di certo in Re-Animator, quindi è stata un’esperienza grandiosa.»

Ma la vera prova da “pistola fumante” arriva un anno prima, nella stessa rivista specialistica “Cinefantastique” (volume 27, n. 7) del marzo 1996. Il tecnico che ha curato gli effetti speciali del ride film alieno, Les Paul Robley, racconta in prima persona l’operazione.


Alien: The Ride

di Les Paul Robley
(operatore che ha lavorato al ride film in questione)

da “Cinefantastique”
volume 27, n. 7 (marzo 1996)

Sul set del film-simulazione basato su “Aliens” della Fox

Con i ride film che diventano attrazioni sempre più popolari dei parchi a tema, sembra naturale crearne ispirati a celebri film. A Disneyland c’è lo Star Tours, agli Universal Studios c’è il Back to the Future, al Six Flags c’è The Right Stuff, al Caesar’s Palace c’è Elvira’s Graveyard Shift, c’è un Robocop: The Ride ed è in arrivo Terminator 3D della Digital Domain. Ora, c’è anche Aliens: Ride at the Speed of Fright.

Prodotto dalla Praxis Films in associazione con la Iwerks Entertainment, la casa autrice di Robocop, il nuovo genere chiamato ride film ha esordito l’anno scorso con ventotto titoli al Pier 39 di San Francisco e in tre cinema giapponesi. La Iwerks ha la più completa libreria di film-simulazioni di questa industria, con installazioni in più di 150 cinema. Diretto da Stuart Gordon, celebre per Re-Animator (1986), e con il direttore della fotografia Paul Gentry, in passato supervisore degli effetti speciali alla Full Moon Entertainment, il ride film mostra effetti e scene dal film Aliens (1986) della 20th Century Fox, con del girato inedito creato per l’occasione.

«Questo sarà un film che andrà ben oltre quanto avete mai provato», afferma il regista Gordon. «Non solo vedrete l’azione, ma la proverete anche. Parliamo davvero della nuova generazione di esperienza cinematografica».

L’operatore Les Paul Robley sul set del filmato-simulazione

Il prologo si apre con la scoperta di un marine superstite che ha perso la propria squadra su un pianeta alieno. Tramite dei flashback vediamo ciò che è successo alla sua squadra durante un controllo di routine nella colonia del posto. Ci sono cadaveri ovunque, imbozzolati: l’unica possibilità è azionare una bomba, che in dieci ore spazzerà via tutto ripulendo il pianeta.

La squadra però è attaccata da xenomorfi provenienti da ogni direzione. I marine aprono il fuoco cercando di sfuggire all’attacco, ma il tunnel è ostruito. Intanto il contatore della bomba prosegue il suo conto alla rovescia quindi i marine dovranno sbrigarsi, a bordo del loro APC (Armored Personnel Carrier).

Lo spettatore viaggia con loro mentre atterrano sul pianeta usando sequenze prese dal film [in realtà no, sono anch’esse girate per l’occasione. Nota etrusca.]. Vediamo l’APC farsi strada nel complesso, tra buche create dall’acido e materiale resinoso. Seguendo un segnale di soccorso, i marine trovano l’APC della precedente missione. […]

Dietro le quinte di Aliens: Ride at the Speed of Fright

I cinema che proiettano i ride film della Iwerks sincronizzano schermi giganti con filmati ad alta risoluzione e movimenti di alta tecnologia. Gentry ha fotografato le nuove scene con pellicola in 35 millimetri 5248 VistaVision, otticamente ingrandita per il formato 870 della Iwerks.

Il set ha visto la presenza di oggetti di scena a grandezza naturale insieme a modellini: niente grafica computerizzata. I passati ride film della Iwerks hanno fatto uso di una grafica al computer che purtroppo ha rovinato il realismo delle scene, una volta proiettata su grandi schermi: le miniature invece sono preferite perché mantengono il realismo. A lavorare sul progetto sono stati chiamati alcuni artisti direttamente da Aliens. […]

Aliens è stato preso dalla Iwerks in licenza dalla 20th Century Fox Licensing, e sarà il primo film ad essere sviluppato in un’attrazione interattiva. Iwerks Visual Adventures presenterà l’attrazione Aliens più avanti, quest’anno.

C’è voluto più di un mese per girare l’intero filmato. […] Le riprese sono iniziate nel febbraio del 1995. […] Il creatore di Alien, H.R. Giger, quando ha saputo del progetto ha commentato: «È un bene che ci stiate lavorando, ma avrei preferito essere informato». Magari un giorno verrà a provare dal vivo il terrore che ha creato.


L.

P.S.
Non perdete lo speciale che “La Bara Volante” sta dedicando a Stuart Gordon.

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[1990-12] Predator 2 su “Cinefantastique” (V21) 3

Traduco questo servizio apparso sulla rivista specialistica “Cinefantastique” volume 21, n. 3 (dicembre 1990).


Predator II

di Steve Biodrowski

da “Cinefantastique”
volume 21, n. 3 (dicembre 1990)

Il massacratore extraterrestre è tornato,
ma è un franchise senza Schwarzenegger?

La caccia continua in Predator II, ma stavolta la sfortunata preda umana è inseguita da un cacciatore alieno attraverso una giungla urbana, piuttosto che una vegetale. L’anno è il 1995, dieci anni dopo che il Dutch Schaeffer di Arnold Schwarzenegger ha battuto il predatore che aveva eliminato le truppe speciali nella loro missione segreta in America Centrale. La città è nel bel mezzo di un’estate da caldo record mentre bande rivali di colombiani e giamaicani lottano per il controllo del traffico di droga. Nel mezzo di questo massacro arriva un nuovo predatore, le cui prime uccisioni vengono all’inizio scambiate per vittime della guerra di droga.

Danny Glover interpreta il ruolo del detective Mike Harrigan, un cacciatore d’uomini dei tempi moderni il cui istinto e le cui capacità lo rendono un “trofeo di prima scelta” per il cacciatore alieno. L’antagonista è Gary Busey nel ruolo di Keyes, un agente federale misterioso, tecnicamente appartenente alla DEA ma in realtà membro di una squadra scientifica che cerca di catturare il predatore per carpirne i segreti tecnologici. Schwarzenegger non ritorna. Un colloquio a voce ci informa che l’unico sopravvissuto del precedente incontro alieno «è scomparso senza lasciare traccia sei mesi dopo». La 20th Century Fox presenta il seguito in uscita nazionale il 30 novembre, anticipando l’uscita rispetto a quella natalizia annunciata dai poster e dai trailer, così da evitare la competizione con il kinghiano Misery non deve morire.

Nonostante il nuovo cast, molti dei tecnici dietro la macchina da presa rimangono gli stessi, ad iniziare dai produttori Larry Gordon, Joel Silver e John Davis. Stan Winston torna ad occuparsi del trucco, non solo del Predator principale ma anche di altri membri della sua specie, che si vedranno brevemente a fine film. Come citazione nascosta, una delle teste aliene di Winston apparirà fra i teschi di varie altre specie interstellari nella stanza dei trofei del Predator. La Greenberg Associates di nuovo gestisce gli effetti ottici per la visione all’infrarossi e il camuffamento del Predator, con in più la novità della visione all’ultra-violetto, che l’essere utilizza davanti ai federali in tuta anti-calore. Jim e John Thomas sono di nuovo alla sceneggiatura, che aggiunge elementi fanta-horror in una formula da thriller poliziesco. La novità è invece costituita dal regista Stephen Hopkins, già autore di Nightmare 5 (1989), delusione al botteghino per la New Line Cinema.

Il nuovo copione dovrebbe piacere ai fan del film originale. La narrazione è scarna ma solida, in grado di enfatizzare l’azione ma senza trasformarla in una semplice sequenza di scene slegate. Il ruolo di Glover è disegnato con tratti sicuri che lo rendono un protagonista credibile per il nuovo predatore. Il cast di contorno è farcito di personaggi riconoscibili senza essere stereotipati. Il formato poliziesco fornisce una struttura sufficientemente diversa per evitare una semplice ripetizione del precedente film, visto poi che il protagonista è sulle tracce del Predator sin dall’inizio della vicenda.

Comunque ci sono alcune debolezze, incluso un ovvio tentativo di organizzare il solito seguito dal finale non soddisfacente. Non è certo una sorpresa che Busey sia disposto a sacrificare vite umane per catturare il cacciatore alieno. Le sue battute ad un certo punto sembrano le stesse del dottor Carrington ne La Cosa (1982) e Ash in Alien (1979). Inoltre, l’opera di riscrittura ha lasciato alcuni buchi di sceneggiatura. La ricerca del Predator da parte di Harrigan ha meno l’aspetto di una caccia e più quello di una vendetta personale, suggerendo precedenti versioni della storia pensate per Schwarzenegger. Si sa che Schwarzenegger è stato contattato per riprendere il suo ruolo ma alla fine ha declinato. È stato menzionato l’attore d’azione Steven Seagal come possibile rimpiazzo, prima del coinvolgimento di Glover.

Forse la parte di fantascienza più divertente (e sorprendente) della sceneggiatura deriva maggiormente dal cambio di ambientazione della storia. Le riprese si sono svolte fra New York e Los Angeles per tenere bassi i costi di produzione. Il budget originale del film di 17 milioni è schizzato a 35 milioni. In una delle scene principali il Predator piomba in mezzo ad uno scontro fra bande, e poi in una metropolitana. Chiaramente Predator II è ambientato in un universo alternativo in cui Los Angeles ha finalmente sviluppato un sistema di trasporto pubblico.


L.

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[1979-10] ALIEN su “Cinefantastique” (V9) 1 (sesta parte)

Nell’autunno del 1979 (nel titolo ho specificato “ottobre” per mere questioni di ordinamento cronologico) la rivista statunitense “Cinefantastique” (volume 9 numero 1) esce con un numero speciale quasi interamente dedicato ad Alien, con interviste al cast tecnico del film.

Ecco l’intervista al celebre curatore degli effetti speciali Bolaji Badejo, il grafico commerciale che nel tempo libero si è ritrovato ad indossare lo scomodo ed asfittico costume dell’alieno. Occhio, però, maglrado sia un celebre “interprete” della creatura, pochissime delle scene che ha girato sono poi effettivamente finite nel montaggio definitivo del film.


Making Alien 6:
Bolaji Badejo

di Frederick S. Clarke e Alan Jones

da “Cinefantastique”
volume 9 numero 1 (autunno 1979)

L’alieno che non vedete in Alien è interpretato dal nigeriano 26enne Bolaji Badejo, alto più di due metri. Bolaji studia arte grafica a Londra ed ha viaggiato con i genitori dall’Etiopia, dove studiava arte, e dagli Stati Uniti, dov’è vissuto per tre anni a San Francisco. È arrivato al ruolo di alieno per puro caso, una serie di coincidenze che sembra degna di un film.

La produzione ha fatto un annuncio di casting per attori molti alti e molto magri. Bolaji è finito davanti agli occhi dell’agente Peter Archer mentre questi stava bevendo in un pub nel West End di Londra. Archer pensò subito ad Alien appena vide il ragazzo, e gli offrì la possibilità di fare il provino per la parte. «Appena entrai», racconta Bolaji, «Ridley Scott seppe che aveva trovato la persona giusta.»

Scott cercava un giocatore di pallacanestro ed aveva provinato Peter Mayhew per l’alieno, ma l’insieme dei valori di Badejo – l’altezza, la longilineità e la postura – gli è valsa la parte. Il ragazzo ha firmato a maggio e subito sono iniziati i lavori per creare il suo costume: ad agosto girava le scene dell’alieno agli Shepperton.

Originariamente Ridley Scott voleva che Bolaji facesse parte di una squadra di tre artisti che interpretassero l’alieno, incluso un mimo e un esperto di karate. Visto che era impossibile trovare persone con le capacità richieste e le qualità di Bolaji, quest’ultimo iniziò a prendere lezioni di mimo ed uno stuntman lo sostituì nelle scene pericolose.

La maggior parte del girato con l’alieno non funzionava, ma c’è una breve scena in cui Bolaji esegue la sua mimica in costume, nella sequenza in cui attacca Veronica Cartwright. «L’idea», dice Bolaji, «era che la creatura dovesse avere una certa grazia così come fosse viscida e con movimenti volutamente lenti. Ma alcune azioni dovevo compierle molto velocemente. Ricordo che dovevo calciare Yaphet Kotto e lanciarlo contro la parete. Veronica Cartwright era davvero terrorizzata. Dopo aver fatto volare Yaphet Kotto con la mia coda, mi giro e mi dirigo verso di lei, con il sangue alla bocca, e lei era incredibile: non stava recitando, era paralizzata dal terrore.»

Bolaji ha lavorato all’incirca per quattro mesi al film, fino alle riprese finali agli Shepperton in novembre. Generalmente lavorava tre o quattro giorni a settimana, a volte nei weekend, e veniva chiamato a rigirare scene quando l’azione non funzionava. «Mi dicevano: “Torna a ripetere la scena”, ma una volta lì volevano che facessi qualcos’altro. Avevano per le mani sempre nuove idee.»

Solamente a Bolaji e a H.R. Giger era consentito guardare i giornalieri con le scene dell’alieno, insieme a Ridley Scott, così potevano risolvere i vari problemi insieme e rappresentare al meglio la creatura e i suoi movimenti. La maggiora parte delle scene che Bolaji ha interpretato non sono finite nel film, per via di alcuni problemi. «Ridley aveva molte più idee di quante se ne vedono su schermo, ma alcune erano impossibili. C’era una scena in cui io pendevo dal soffitto a tre o quattro metri da terra, e dovevo rannicchiarmi. Ero come un bozzolo che poi doveva aprirsi lentamente. Ma non riuscivo a farlo. Avevo questa imbracatura attorno al mio stomaco che mi soffocava quando cercavo di fare quei movimenti.»

Scott ha cercato di filmare la stessa scena con uno stuntman che scendeva sopra Harry Dean Stanton, ma non riuscì a farla funzionare. Scott ha girato diverse varianti della sua idea del mostro che scende dell’alto, ma nessuna di queste ha funzionato. In una, Badejo era legato a un grosso braccio oscillante che poteva essere alzato fino a cinque metri da terra. Quando però scendeva, Bolaji si ritrovava a testa in giù, confuso per tutto il sangue alla testa. Quando è troppo è troppo! Bolaji si rifiutò di ripetere quella scena, così Scott dovette far provare allo stuntman, ma anch’egli fallì. Scott provò anche a legare un costume vuoto al braccio meccanico per filmare la scena, ma senza qualcuno al suo interno quel costume non funzionava.

Alla fine il regista filmò alcuni secondo con lo stuntman che scende su un altro stuntman che fa la parte di Harry Dean Stanton, e alla fine ha adottato un montaggio serrato che lasci solo suggerire la sequenza.

H.R. Giger fece i costumi alieni in latex su misura per Bolaji e per lo stuntman, al costo di più di 250 mila dollari. Il costume consisteva in circa quindici pezzi separati, montati su una tuta nera a corpo intero. La coda era attaccata separatamente e mossa da una serie di cavi; i piedi erano come scarpe e la testa veniva posta per ultima. A Bolaji piaceva indossarla, perché sentiva come se fosse infilata in mezzo ad una enorme banana. «Devo tendere la testa ben dritta, questo è il segreto di indossare questo costume», dice. «Il set della Nostromo è alto solamente due metri, mentre io con il costume sono circa due metri e mezzo. Dovevo muovervi con molta cautela. Nel costume poi faceva un cado d’inferno, soprattutto nella testa: potevo tenerlo solamente per quindici o venti minuti per volta. Quando me lo toglievo, la mia testa era zuppa.»

In aggiunta alla normale testa, Bolaji ha indossato anche la testa meccanica creata da Carlo Rambaldi, per i primi piani. «Era tutta manovrabile, controllata in remoto», dice Bolaji. «C’è giusto lo spazio per la mia testa, all’interno.»

«Devono aver utilizzato duemila confezioni di K-Y jelly», ride, «solo per ottenere l’effetto di tutto quello slime che mi fuoriesce dalla bocca. Una parte mi veniva spruzzato in faccia, a volte vedevo a malapena cosa mi succedesse intorno, a parte quando ero in posizione per girare: in quei momenti avevo dei buchi dai quali potevo vedere.»

Bolaji ha indossato il costume solo per le sequenze in cui si vede il corpo intero dell’alieno. Per le scene dove si vede solo un braccio o una parte del corpo, chiunque poteva fare da modello. Bolaji per esempio ha interpretato la scena con Tom Skerritt nel canale di ventilazione della Nostromo, dove solamente parte della creatura accucciata si può vedere. Per altre sequenze è stato usato un manichino in costume, come per esempio quando l’alieno viene risucchiato dai motori della nave e poi liquefatto. Quell’ultima scena ha rappresentato alcuni problemi per Bolaji, e ha generato la maggior parte del suo girato poi finito nel film.

Salire e poi scendere dall’angusta paratia della navetta, scena dopo scena, ha messo a dura prova il costume, che si è iniziato a rovinare. «Uscire da quel complesso costume non era facile», esclama Bolaji: «devo averlo strappato due o tre volte, uscendone, e ogni volta che scendevo dalla paria la coda si staccava. Però non sembrava essere un problema per i tecnici, perché avevano più costumi. Ricordo di aver dovuto ripetere un’azione per circa quindici volte, e alla fine ho detto basta. Era pieno di fumo ed era difficile respirare, oltre al caldo insopportabile.»

A Bolaji dispiace che nessuno possa riconoscerlo nel film, ma ripensando a Boris Karloff, Christopher Lee ed altri attori di successo che hanno iniziato le loro carriere interpretando mostri, aggiunge: «Il fatto che io abbia interpretato l’alieno per me va già bene: legalmente mi verrà data la possibilità di tornare ad interpretarlo se ci sarà un seguito.»

Sebbene abbia studiato per la carriera da grafico commerciale, Bolaji afferma: «Non se arriva un altro film!»


L.

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[1979-10] ALIEN su “Cinefantastique” (V9) 1 (quinta parte)

Nell’autunno del 1979 (nel titolo ho specificato “ottobre” per mere questioni di ordinamento cronologico) la rivista statunitense “Cinefantastique” (volume 9 numero 1) esce con un numero speciale quasi interamente dedicato ad Alien, con interviste al cast tecnico del film.

Ecco l’intervista al celebre curatore degli effetti speciali Carlo Rambaldi, italiano DOC che ha scelto di trasferirsi ad Hollywood sia perché dopo il successo di King Kong (1976) è diventato richiestissimo, sia perché le produzioni con budget più alti gli hanno permesso di utilizzare effetti speciali impensabili per il rachitico cinema italiano.


Making Alien 5:
Carlo Rambaldi

di Glenn Lovell

da “Cinefantastique”
volume 9 numero 1 (autunno 1979)

Una volta che Ridley Scott ha scelto l’alieno di H.R. Giger per il suo film, si dice abbia scherzato dicendo: «Be’, i miei problemi ora sono finiti, oppure sono appena iniziati». Ciò che Scott temeva era di dover usare un altro “uomo in costume”, tecnica di solito utilizzata per i film con gli alieni. La soluzione per evitare questo problema era semplice: non avrebbe mostrato il costume. Ma qualcosa doveva mostrare: arriva il maestro degli effetti speciali Carlo Rambaldi con una meravigliosa testa meccanica ad instillare la vita nel disegno di Giger. Almeno il 90% delle riprese dell’alieno che vediamo su schermo hanno per protagonisti i modelli della testa articolata creati da Rambaldi.

Carlo Rambaldi è naturalmente il genio degli effetti speciali che sembra sbucare fuori dal nulla per vincere un Oscar nel 1977 per il suo lavoro nel King Kong di Dino De Laurentiis. Sebbene quel film abbia dimostrato di essere un disastro dal punto di vista degli effetti speciali, il lavoro di Rambaldi – una enorme testa ed una titanica mano di Kong – è stato largamente acclamato. Sfortunatamente Rambaldi ha ricevuto anche le critiche dei fan dei modellini per aver costruito una versione meccanica a dimensione reale, null’altro che una trovata pubblicitaria di De Laurentiis. Anche agli occhi dei fan dei modellini più integralisti, Rambaldi ha conquistato nuova stima grazie al suo alieno meccanico di Incontri ravvicinati del terzo tipo, l’anno successivo, che ha utilizzato anche tecniche in stop-motion per la fluidità dei movimenti.

Il lavoro di Rambaldi per Alien, come quello per Incontri ravvicinati, è stato quello del “risolutore di problemi”, chiamato a salvare una situazione impossibile. «Ho ricevuto una telefonata dall’ufficio londinese della produzione di Alien», dice Rambaldi. «Chiedevano il mio aiuto perché era impossibile per loro ottenere ciò che volevano.» Rambaldi accettò di studiare il problema e gli furono inviate copie dei dipinti e disegni di Giger sull’alieno, indicando l’azione che doveva avere la sua lingua mobile. Fu chiesto a Rambaldi di ideare un meccanismo che facesse funzionare il tutto. Dopo aver studiato i disegni di Giger, Rambaldi accettò il lavoro perché disse di poter creare una soluzione in quattro settimane.

Rambaldi iniziò a lavorare nella sua compagnia hollywoodiana, con ben poca collaborazione dalla produzione inglese. Oltre ai dipinti di Giger gli furono mandati anche dei modellini grezzi dell’alieno. Iniziò a buttar giù degli schemi della testa aliena e delle parti meccaniche necessarie. Lavorando con le idee di Giger, Rambaldi ideò i movimenti facciali caratteristici della creatura. Tramite quegli schizzi il lavoro passò a disegnare i muscoli e i vari meccanismi. Rambaldi fece delle modifiche al disegno originale di Giger per venire incontro ai requisiti meccanici necessari, e scolpì una versione finale della testa aliena. Mandò un video del modello finito, mostrandolo da tutte le angolazioni, insieme a copie dei propri disegni all’ufficio della produzione di Alien per l’approvazione finale.

Ricevuto il via libera, Rambaldi procedette alla creazione dello stampo della propria scultura, infilando al testa in una speciale mistura di soffice poliuretano, che creò una naturale flessibilità per le parti mobili della testa della creatura. Rambaldi negli anni aveva sviluppato la propria personale formula del poliuretano, che riusciva ad imitare il tessuto vivente sia nell’aspetto che nel movimento. Una volta colorato, diede carne aliena quel caratteristico aspetto grigio metallico. La testa in poliuretano conteneva una forte struttura scheletrica in fibra di vetro modellata. Le parti mobili in fibra di vetro ricoperte dal poliuretano – come la faccia, le mascelle e la lingua – erano legate alla testa da punti di giunzione. La faccia da teschio dell’alieno era attaccata alla testa mediante un perno che permetteva movimenti controllati sia in orizzontale che in verticale. Questo faceva sì che la faccia aliena guardasse da una parte all’altra senza che questo corrispondesse al movimento dell’intera testa.

L’azione della lingua operava indipendentemente da quella dei muscoli delle mascelle. La lingua poteva andare piano e fermarsi in qualsiasi punto, ho poteva scattare fuori e tornare indietro in un movimento velocissimo, guidato dal potente meccanismo. File di denti metallici erano attaccati sulle mascelle e dietro questi c’erano denti aggiuntivi posizionati all’estremità della lingua, che si apriva come un’altra bocca. Rambaldi scelse di utilizzare l’acciaio per i denti così da fornir loro un forte riflesso, aggiungendo il giusto tocco per rendere più convincente l’aspetto della creatura di un assassino freddo, infido e quasi indistruttibile.

I controlli delle labbra superiori ed inferiori dell’alieno furono installati per permettere alla creatura di mostrare i propri denti semplicemente arricciando le labbra. Dei profilati, tre per ogni parte, furono utilizzati per simulare i tendini che uniscono le mascelle al teschio. Essendo traslucidi, permettono la visibilità dei movimenti della lingua nella bocca. Il tocco finale è stato uno strato di un centimetro e mezzo di materiale plastico che ricopre la superficie superiore della testa per la sua intera grandezza. Capace di essere sia traslucido che opaco, a seconda dell’illuminazione e dell’angolo di ripresa, questo strato dà all’alieno un aspetto sempre diverso.

Rambaldi ha costruito tre teste da utilizzare nel film: due meccaniche usate principalmente nei primi piani ed una leggera, non meccanica, per i piani lunghi. Delle due teste meccaniche, solo una era in grado di eseguire tutte le funzioni previste, ed era quella usata principalmente durante le riprese. La seconda era più leggera e più facile da usare, ma è stata utilizzata solo per le inquadrature dove la creatura arriccia le labbra.

Rambaldi ha portato le due teste complete in Inghilterra e ha passato lì due settimane a parlare con il regista Ridley Scott, lavorando sulla colorazione e sui dettagli finali dei modelli, ed insegnando alla produzione come usare le teste. Per via di impegni precedenti, Rambaldi non poteva rimanere a disposizione per le riprese, ma lasciò il suo collaboratore di Roma, Carlo DeMarchis, per addestrare la troupe e supervisionare i controlli durante le riprese.

Ogni movimento della testa aliena di Rambaldi è controllato a distanza mediante un cavo flessibile. Un controllo a leva fa sì che il cavo si contragga o si allunghi generando una corrispondente azione nei muscoli, nei tendini e nelle parti mobili del modello. Tutti i cavi arrivano alla testa passando dal collo, e raggiungono la lunghezza di più di un metro, così da permettere la libertà di movimento richiesta nelle scene d’azione.

Durante le riprese di Alien è servito un gruppo di sei operatori per controllare tutti i movimenti della testa nelle scene più complesse. Di contro, solo un massimo di sette operatori sono stati necessari per muovere l’alieno di Rambaldi visto in Incontri ravvicinati, e in quel caso c’erano movimenti del corpo e del torso oltre a quelli della testa, giusto per avere un’idea della complessità dei movimenti disegnati da Rambaldi per Alien. Durante le riprese sono state utilizzate tecniche speciali che hanno aggiunto più realismo, come il fluido che fuoriusciva dalla bocca quando la creatura apriva la bocca.

Rambaldi ha disegnato e costruito le teste articolate in modo così preciso da poter rimanere a lungo davanti all’obiettivo, sotto ogni angolazione, eppure la maggior parte dei suoi dettagli non viene mai mostrata durante il film. Rambaldi ride, sgomento: «Quando mostro questa testa agli amici, rimangono sorpresi. “Questo è l’alieno?”, esclamano. Non lo riconoscono perché nel film non hai mai un’inquadratura chiara. Hanno usato tutti i movimenti, ma le inquadrature della testa sono così veloci e l’azione così frastagliata che è difficile riuscire a capire cosa si stia guardando. Se avessi collaborato con il regista, il che mi è stato impossibile, avrei preferito maggior presenta in video della creatura, così da permettere al pubblico di notare i particolari. Secondo me, ho dato al regista 100 possibilità e lui ne ha usate 20. Forse aveva una ragione per farlo, magari sentiva che era preferibile lasciare l’alieno all’immaginazione.»

Un dettaglio che non si nota nel film, e non appare evidente dalle foto, è il sottile movimento giugulare quando la creatura spalanca le mascelle. Ralph Cobis, uno degli assistenti hollywoodiani di Rambaldi, che lavora principalmente sui calchi, precisa: «Quei movimenti erano di estrema importanza perché eliminavano totalmente l’idea della forma umana.» Concentrando la cinepresa sulla testa articolata di Rambaldi, Ridley Scott era in grado di eliminare l’immagine del “tizio in costume” e del mostro a forma umana.

Rambaldi attesta chiaramente a Giger il merito del successo dell’alieno. «Il profilo della testa esclude qualsiasi idea umana», dice. «Preferisco l’immagine di profilo: davanti, hai all’incirca le stesse linee di una testa umana.» Scott non mostra mai l’alieno di fronte, probabilmente per questa ragione, bensì da varie angolature del profilo, ad eccezione di un momento nel finale.

Il sistema di cavi usato da Rambaldi per gestire gli effetti speciali nel film Alien è praticamente lo stesso che ha introdotto ad Hollywood con King Kong, ed utilizzato in seguito per Incontri ravvicinati. Questo ha generato la falsa idea che lui si sia specializzato in questa tecnica a discapito delle altre: non è affatto vero. «A volte uso l’elettricità, un sistema idraulico o un meccanismo radiocontrollato», spiega. «La soluzione di un problema di effetti speciali dipende da molti fattori: il tipo di film, l’azione della sequenza, il tipo di movimenti richiesti, il regista, se il film viene girato in studio o all’aperto, il budget e il tempo a disposizione. Molti fattori.»

Uno dei progetti per cui Rambaldi ha sviluppato effetti speciali è il Greystoke di Robert Towne, la definitiva versione cinematografica del Tarzan di Edgar Rice Burroughs. «Per esempio», aggiunge Rambaldi, «se hai una creatura che salta da un albero all’altro, non è possibile usare un sistema di cavi: devi usare l’elettricità o il radiocontrollo, e la scelta dipende dal budget.»

Per Le ali della notte [Nightwing, 1979], Rambaldi ha usato tecniche di radio controllo per gestire dei pipistrelli meccanici. «Il controllo radio è più costoso», spiega, «ma la qualità è praticamente la stessa del cavo.» Il controllo radio è diventato necessario quando la natura dei movimenti di un modello impedisce l’uso di cavi di qualsiasi tipo. Per effetti come quelli visti in Alien il sistema di cavi ha il vantaggio che permette all’operatore di gestire bene i controlli: cambiando la pressione e la velocità nel premere le leve, grazie alla pratica acquisita, possono mettersi in pratica molti più movimenti che con il controllo radio.

Quando Rambaldi è arrivato in questo Paese nel 1976 per lavorare a King Kong era del tutto sconosciuto, sebbene avesse già lavorato per vent’anni nell’industria cinematografica italiana in più di 350 film e spettacoli televisivi. «Preferisco lavorare ad Hollywood», dice Rambaldi. «In Italia i film hanno budget bassi e quindi bisogna lavorare molto di fretta. Ciò significa che ho meno tempo per il mio lavoro, ed è impossibile per me raggiungere i livelli di qualità che ho raggiunto qui. In Italia è per me impossibile perfezionare un effetto speciale fino al suo massimo potenziale», aggiunge l’assistente Ralph Cobis. «C’è una naturale evoluzione nel campo degli effetti speciali. In Italia, dove c’è poco tempo, non puoi mai migliorarti, devi rimanere fermo, indietro con l’evoluzione, perché non ci sono i tempi per migliorarsi. Qui invece Carlo può migliorare quanto vuole, perché gli danno tempo.»

Il costo degli effetti speciali dipende dal livello di qualità e sofisticatezza desiderato. Per via di budget bassi, i produttori italiani di solito chiedono solo effetti di seconda o terza scelta. «Qui», afferma Rambaldi, parlando dell’America, «tutte le produzioni vogliono il massimo livello qualitativo, esclusivamente la prima classe. Questa atmosfera è buona per realizzare tutto il mio potenziale.»

Rambaldi è nato il 15 settembre 1926 a Ferrara, Italia. Nel 1947 si è diplomato all’Istituto Tecnico Vincenzo Monti e quattro anni dopo si è laureato in direzione cinematografica all’Accademia delle Belle Arti di Bologna. L’assistente Ralph Cobis attribuisce a Rambaldi grandi successi in questo Paese per via della sua formazione. «Carlo combina una conoscenza dell’ingegneria meccanica con un forte substrato artistico. Ad Hollywood puoi trovare ovunque qualcuno che lavori nel trucco, o negli effetti speciali, usando tecniche idrauliche per il movimento e il controllo remoto. La formazione di Carlo unisce questi due campi insieme. Con una forte formazione artistica, è stato capace di sviluppare modelli meccanici per effetti speciali basandosi sulle sue conoscenze anatomiche.»

Dopo il premiato lavoro su King Kong, Rambaldi ha creato la propria compagnia hollywoodiana, “Carlo Rambaldi – Sculptures and Electromechanical Creations for Cinematography”, ed ha ingaggiato sette specialisti a tempo pieno e trenta assistenti part time. Rambaldi considera il suo trasferimento ad Hollywood come permanente. «Ora ho una green card», afferma orgogliosamente, riferendosi al suo permesso di soggiorno lavorativo come immigrato residente. Conclude Cobis: «Già, niente più raid.»


L.

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[1979-10] ALIEN su “Cinefantastique” (V9) 1 (quarta parte)

Nell’autunno del 1979 (nel titolo ho specificato “ottobre” per mere questioni di ordinamento cronologico) la rivista statunitense “Cinefantastique” (volume 9 numero 1) esce con un numero speciale quasi interamente dedicato ad Alien, con interviste al cast tecnico del film.

Ecco l’intervista al produttore David Giler, che al contrario del suo predecessore Walter Hill non solo ha molto da dire, ma molto veleno da riversare su Dan O’Bannon: l’odio e il disprezzo che traspare dalle sue parole è profondo e ci dà un’idea su quanto sia stata problematica la lavorazione di Alien.

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[1979-10] ALIEN su “Cinefantastique” (V9) 1 (terza parte)

Nell’autunno del 1979 (nel titolo ho specificato “ottobre” per mere questioni di ordinamento cronologico) la rivista statunitense “Cinefantastique” (volume 9 numero 1) esce con un numero speciale quasi interamente dedicato ad Alien, con interviste al cast tecnico del film.

Ecco l’intervista al produttore e sceneggiatore Walter Hill, che in realtà parla poco o niente: pochissime parole giusto per dire che non ce l’ha con O’Bannon, no, per niente, e che non ha alcun sentimento d’odio per quello stronzo…
L’odio profondo che traspare in queste rarissime interviste sull’argomento – mai più replicate nei decenni successivi – ci mostrano i due “veri” autori del girato finale di Alien, cioè Walter Hill e David Giler, costretti ad avere per sempre negati i crediti di sceneggiatori solo perché Dan O’Bannon è andato a “piangere dalla mamma”, cioè ha chiesto l’arbitrato della WGA (Writer’s Guild of America). Hill e Giler accettano, ma perché sanno come funzionano le cose ad Hollywood: la loro carriera sarà ricca e prolifica, quella di Dan non andrà più da nessuna parte…

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[1979-10] ALIEN su “Cinefantastique” (V9) 1 (prima parte)

Nell’autunno del 1979 (nel titolo ho specificato “ottobre” per mere questioni di ordinamento cronologico) la rivista statunitense “Cinefantastique” (volume 9 numero 1) esce con un numero speciale quasi interamente dedicato ad Alien, con interviste al cast tecnico del film.

Ecco la prima intervista al regista Ridley Scott, in cui scopriamo molti particolari che rimarranno ignoti nei decenni a venire: finito il 1979 il regista parlerà molto poco di Alien se non per dire vaghe banalità.

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[1979-07] ALIEN su “Cinefantastique” (V8) 14

Nell’estate del 1979 (nel titolo ho specificato “luglio” per mere questioni di ordinamento cronologico) la rivista statunitense “Cinefantastique” (volume 8 numero 14) esce con un lancio davvero particolare di Alien: il managing editor Jeffrey Frentzen confronta alcune foto di scena del film, uscito in sala il giugno precedente, con le relative “fonti” da cui plausibilmente Dan O’Bannon e Ronald Shusett hanno tratto ispirazione, più o meno coscientemente.

I due film utilizzati come confronto sono diventati in seguito molto citati e addirittura si dà per scontato che Alien ne sia un diretto derivato, tanto che lo stesso O’Bannon intervistato alla fine li ha citati.
Si tratta (com’è noto) de Il mostro dell’astronave (It! The Terror from Beyond Space, 1958, disponibile in DVD Cecchi Gori) di Edward L. Cahn e Terrore nello spazio (1965, in DVD Sinister restaurato) del nostro Mario Bava, noto negli USA come Planet of the Vampires.

Ecco le due pagine con cui Frentzen informava i lettori delle “influenze” più palesi, e mi preme sottolineare la genialtà del titolo: It! The Terror from Beyond the Planet of the Vampires, deliziosa fusione dei due citati titoli originali.

L.

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[1978-07] ALIEN su “Cinefantastique” (V7) 2

Traduco questo articolo apparso su “Cinefantastique” volume 7 numero 2 (estate 1978) con la presentazione dell’imminente produzione di Alien.


ALIEN

di Jeffrey Frentzen e Tim Wohlgemuth

da “Cinefantastique” volume 7 numero 2 (estate 1978)

Alien sta per essere prodotto da Gordon Carroll, David Giler e Walter Hill per la loro Brandywine Productions, con la distribuzione della 20th Century Fox. Il copione è stato scritto da Dan O’Bannon basandosi sul soggetto originale di O’Bannon e del produttore esecutivo Ronald Shusett. O’Bannon è meglio noto per il suo lavoro sul film di culto Dark Star e per il production design dell’abortito progetto Dune. A dirigere Alien è stato chiamato Ridley Scott, il cui primo film è lo squisito dramma in costume I duellanti, un grande successo a Cannes l’anno scorso.

Sebbene Alien è stato preso in considerazione negli ultimi due anni, la sua recente produzione è un altro esempio dell’intenzione della major di puntare su prodotti fantascientifici di qualità.

O’Bannon ci ha fornito dettagli sul progetto mentre stava lasciando Londra per iniziare a lavorare con il fumettista underground ed illustratore del fantastico Ron Cobb, l’artista svizzero H.R. Giger e l’artista francese Jean Giraud sul design del film. Giraud è meglio noto per il suo lavoro in “Heavy Metal” con il nome di Moebius, ed ha già lavorato con O’Bannon a Dune.

«Alien è come un film horror gotico ambientato nello spazio», dice O’Bannon. «Ero affascinato ed eccitato per la possibilità di avere una qualche forma mostruosa che si aggirava libera in un vascello spaziale. La cosa abbatte ogni barriera che l’equipaggio gli pone davanti e nulla può ucciderla. Non c’è un posto dove nascondersi, una volta raggiunta la fine della nave. Mi piace l’idea di un pianeta sconosciuto in cui gli esploratori umani (leggi “invasori”) scoprono una forma di vita del tutto differente. Il non capire questa forma aliena porta alla maggior parte dei problemi.»

Il film assomiglia da vicino a Il mostro dell’astronave, un piccolo prodotto di serie B scritto da Jerome Bixby nel 1958. E O’Bannon originariamente aveva concepito Alien come un film a basso budget. «Il mio primo copione prevedeva una produzione non più grande di mezzo milione di dollari. Con i soldi che invece la Fox ha messo sul tavolo, ora sembra che il budget sia troppo alto.»

Così come King Kong e Incontri ravvicinati del terzo tipo, i dirigenti della Fox e Carroll hanno concepito l’alieno come un meccanismo a grandezza naturale, mosso sul set con un sistema idraulico. Dice O’Bannon, che supervisionerà gli effetti speciali del film: «Ogni passo che si fa lontano dall’animazione in stop-motion è un passo indietro. I produttori sono sempre seccati dai problemi di questa tecnica, ma non capiscono che non importa: quel tipo di movimenti non si può ottenere con ingombranti modelli a grandezza naturale.»

Con Ronald Shusett, O’Bannon sta inoltre preparando un adattamento del racconto “Chi se lo ricorda” (I Can Remember It For You Wholesale, 1966] di Philip K. Dick, che diventerà un film dal titolo Total Recall. La storia sarà estesa ed arricchita per il cinema.


L.

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