Alien 3 (1992-2022) – 7. La versione di Fincher


Il regista che odiava il proprio film

«Ci ho dovuto lavorare per due anni, mi hanno licenziato tre volte e ho dovuto combattere per ogni singolo aspetto. Ancora oggi, nessuno odia Alien 3 più di me.»
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David Fincher a Mark Salisbury per “Guardian”, 18 gennaio 2009

Nella suo saggio Rebels on the Backlot (2005) Sharon Waxman incontra molti registi, fra cui David Fincher, di cui racconta brevemente le “origini”.

Cresciuto in una provincia americana simile a quella che fa da sfondo a tutte le storie horror, il giovanissimo David viveva male la sua adolescenza, la scuola era un disastro ma il cinema l’aveva colpito forte sin da tenera età: era lì che voleva andare per sfuggire a tutto il resto.
Nel 1980 Fincher è un diciassettenne che vorrebbe andare alla USC, quell’Università californiana da cui sono usciti parecchi nomi noti dell’ambiente, ma è in totale disaccordo con la sua filosofia – cioè spendere 70 mila dollari di tasca propria per produrre un filmino studentesco i cui diritti sarebbero poi rimasti all’università – quindi decide di provare un’altra strada: andare a bussare al suo amico Craig Barron.

Barron aveva lavorato con la ILM (Industrial Light & Magic), la casa di Spielberg e Lucas che all’epoca era l’apice della magia cinematografica, dipingendo alcuni fondali per L’Impero colpisce ancora (1980). Conosciuto tra i banchi di scuola, Fincher chiede a Barron un’opportunità per entrare in quel magico mondo ed ottiene piccole mansioni tecniche sul set de Il ritorno dello Jedi (1983), film che detesta di cuore ma che gli ha regalato visibilità, visto che c’è il suo nome nei titoli di coda.

Mica tutti ce l’hanno, il nome nei titoli di coda de Il ritorno dello Jedi

In attesa che Lucas torni a girare (eh, stai fresco!), Fincher trova altri lavori tecnici in giro, come la direzione della fotografia dei fondali de La storia infinita (1984), altro lavoro che non lo lascia soddisfatto: ben presto trova in TV gli stimoli che cercava e nel 1987 ha già co-fondato una sua compagnia, la Propaganda. Il successo di Fincher nell’ambiente è immediato e questo lo porta al “livello successivo”,, cioè Alien 3, che la saggista non esita a definire «un assoluto disastro» (an unmitigated disaster).

Al giornalista Mark Salisbury di “Empire” n. 80 (febbraio 1996) così Fincher racconta:

«Ero infelice. Non sono bravo a fare il cane ammaestrato, non ero lì a radunare le pecore di qualcun altro. Nei miei lavori televisivi ero sempre totalmente coinvolto, riscrivevo e riconcepivo i soggetti. Cerchi di fare tua l’opera, ma non puoi riuscirci se quando entri ci sono già lavorazioni di due anni iniziate da qualcun altro. Tutto era un “Ci piace la tua idea, ma vedi se riesci a realizzarla con 15 mila dollari invece che 150 mila”.»

Al giornalista, Fincher rivela la sua personale versione del film alieno, quella che ha raccontato alla Fox e per la quale è stato assunto. Solo per poi scoprire – chi mai l’avrebbe potuto immaginare? – che non c’erano soldi per realizzarla.

«Ho raccontato loro la storia e mi hanno ingaggiato, splendido. Il mio era un fottuto film alla David Lean. Non parlava di tipi tosti nello spazio bensì di pedofili. Era un film grande, complicato e politico. C’erano tre Lance Henriksen in giro, Paul McGann era un assassino seriale e alla fine del film hai l’alieno che corre in giro con tremila Stormtroopers in arrivo. Era grandioso, strano e l’idea era splendida. Poi arrivano e mi dicono “Non possiamo farlo, al massimo possiamo avere diciotto tizi”. E così alla fine hanno tagliato le palle a tutta l’intera operazione.»

Un altro saggio, Studying Fight Club (2014) di Mark Ramey, ci racconta che una volta completato con sofferenza il suo film, Fincher lo fa vedere a Joel Schumacher, ed ecco quale è stato l’autorevole responso del celebre regista:

«La buona notizia è che stai puntando in alto. La cattiva è che non sei in grado di ottenere ciò che vuoi: sei un fuori-classe, e quindi sei infelice per definizione. Questo è il primo punto. Il secondo punto è che ti metti in una posizione per cui loro [i produttori] hanno più potere di te semplicemente perché tu tieni al film molto più di loro. Non lasciare che accada di nuovo.»
(dichiarazione riportata in origine da James Swallow in Dark Eyes. The Films of David Fincher, 2003)

Fincher ha subito fatto sua la lezione, infatti al citato “Empire” nel 1996 racconta:

«La cosa più orribile del fare Alien 3 è stata capire che più ti importava del film, più loro ti fottevano: è una lezione davvero dura da imparare. La regola del gioco, quando hai a che fare con quel tipo di soldi, è che devi essere in grado in qualsiasi momento di alzarti e mandare tutti a fare in culo. Devi poter dire “non me ne frega un cazzo” in ogni momento, allora sì che sei in una posizione di potere. Io invece ero totalmente inerme, perché ero totalmente preso da qualcosa che doveva reggere il confronto con due film precedenti.»

Al momento di inaugurare una nuova rivista di cinema – “Imagi-Movies” (inverno 1993), costola della più celebre “Cinefantastique”, in un momento magico per l’informazione cinematografica – è chiaro che l’Affaire Alien 3 debba ancora essere analizzato, ad un anno dall’uscita del film, quando ormai chiunque scrivesse recensioni l’aveva stroncato.

Il giornalista britannico Mark Burman ci informa con una certa curiosità che invece il film ha avuto una buona accoglienza in Europa e in Giappone (peraltro il Sol Levante da sempre è il fan numero uno dell’universo alieno!) «Forse è piaciuto il suo pessimismo disperato», ipotizza il giornalista dubbioso, incredulo che il film possa aver riscosso altro che pernacchie, «forse i dialoghi suonano meglio in francese: chissà in quei posti in quante maniere si può tradurre “fanculo”?» Giusto per ricordare quanto il mercato europeo sia tenuto in nulla considerazione nell’opinione americana.

«Credo che il pubblico l’abbia trovato pretenzioso e ponderoso: non spaventoso bensì nauseante». A parlare è David Fincher che, contattato per una breve intervista telefonica per conto dalla BBC, con sorpresa del giornalista britannico inizia a confessarsi e a dilungarsi: quanto avrà pagato di bolletta la BBC?

«La prima cosa che abbiamo deciso è che l’alieno non sarebbe stato il centro focale della storia. È come per Il ponte sul fiume Kwai (1957), il ponte è solo uno dei soggetti della vicenda, non il fulcro del film. L’idea era di non fare uno spara-tutto, bensì gestire questo personaggio: lanciamo nello spazio una donna di quarant’anni invece di una vittima in mutandine come nel primo Alien

Che tenero Fincher, che parla come se lui avesse preso parte al processo creativo della storia! Decisamente più interessante quando racconta della visita di Ridley Scott sul set di Alien 3:

«Era favoloso con il suo vestito di seta e uno dei suoi grandi sigari cubani. C’era una troupe di un documentario Fox che filmava l’intera conversazione.
Ridley mi ha chiesto come stesse andando e io risposi “Davvero male”, al che lui disse: “Non va mai bene, non è così che funziona il cinema: assicurati di fare un piccolo film dove riesci ad avere il controllo, mentre loro continuano a bastonarti”. Poi mi raccontò come non avesse ancora visto un centesimo dal primo Alien. Non credo che abbiano usato quella conversazione nel documentario.»

Chissà che non sia questo il vero motivo per cui Scott non ha mai voluto prendere in considerazione un ritorno nell’universo alieno prima del nuovo millennio: sapeva che la Fox non paga a meno di non farle causa!

Intanto Fincher torna alla sua geremiade:

«È stato semplicemente orribile: la cosa peggiore che mi sia mai capitata. Guarda, sarei uno stupido a dire che non sapevo cosa mi aspettasse, mi ci sono voluti cinque anni per decidere cosa volessi fare e ho sempre voluto fare film di questo livello. (tira un lungo sospiro.) La lezione che ho imparato è che non puoi metterti alla guida di un progetto come questo a meno di non avere film come Terminator o Lo Squalo alle tue spalle.
Quando arriva Spielberg e dice “Ho fatto il film che ha guadagnato di più nella storia e voglio 18 milioni per fare Incontri ravvicinati…“, tutti annuiscono e si sentono fortunati ad averlo a bordo. Tutt’altro discorso è quando sei circondato da gente che suda sangue per i soldi che stai spendendo e dici loro “Fidatevi di me, io credo veramente in quel che sto facendo”: loro ti guardano e dicono “Chi cazzo sei? A chi frega ciò in cui credi?”»

Un discorso interessante di Fincher nasce dal finale del film. Il regista ha subito sposato l’idea del suicidio della protagonista: il primo film per lui anticipava il culto della personalità degli anni Ottanta, e il secondo film dava voce al nascente fenomeno delle donne che dovevano unire carriera e maternità: a cosa si sarebbe riferito il terzo? Cosa chiedere alle nuove generazioni anni Novanta? «Sacrificio, una nobile alternativa capitalista.»

Un suicidio diventato iconico

Una volta stabilito che Ripley deve morire, Fincher fa notare che agli occhi del pubblico americano il suicidio è visto come un segno di debolezza, una “via d’uscita facile” e quindi una rinuncia alle proprie responsabilità. Quindi bisognava fare in modo che il gesto fosse obbligato, che non ci fossero alternative. Ma lo stesso il regista ha creato una “tentazione finale”.

«C’era un’intera scena di almeno tre minuti che è stata tagliata via, quando Bishop espone la questione a Ripley. Volevo che la donna fosse davvero tentata, che prendesse seriamente in considerazione l’idea di accettare la proposta di Bishop. In origine c’erano ben 40 secondi di pausa da quando lui dice “Devi credermi” a quando lei risponde “No”.»

Un’umana debolezza tagliata dal montaggio finale

Fincher voleva che la donna subisse una sorta di tentazione ma che soprattutto prendesse lei la decisione, invece di subire gli eventi: lanciarsi nel fuoco doveva essere una sua decisione cosciente e soprattutto ponderata, invece nella velocità del montaggio finale la “pausa di riflessione” si perde.

«Non volevo che l’alieno venisse fuori, ancora non mi piace l’idea della creaturina che esplode dal petto nel finale». Il regista voleva chiudere la scena con Ripley che crollava nella fornace con sguardo rilassato, contenta che tutto stesse finalmente finendo, ma nelle proiezioni di prova il pubblico invece ha premiato l’uscita del chestburster dal petto, scena imposta a Fincher dalla produzione e girata quattro giorni prima dell’uscita in sala. «Un completo e ridicolo disastro, non so se funzioni».

Il chestburster finale, che non piacerà a Fincher ma a cui sono affezionato

Curiosamente, però, nella recensione finale di Carl Brandon su “Cinefantastique” (giugno 1992) si afferma l’esatto opposto.

«Originariamente Alien 3 finita con il chestburster che fuoriusciva da Ripley, la quale aveva ancora la forza sufficiente per lanciare la creatura nel piombo fuso. Quando una proiezione di prova dimostrò che la scena risultava fortemente insoddisfacente, la Fox ha modificato tutto così che Ripley ora allarga le braccia a crocifisso e cade nel fuoco, salvando l’umanità dai piani della Compagnia.»

Ma quanti finali sono stati girati? Purtroppo non posso essere sicuro di quello che ho visto in sala nel 1992, che mi sembra lo stesso uscito in home video – con Ripley che afferra il chestburster uscito dal suo petto – comunque Fincher dovrebbe essere soddisfatto che nella versione “estesa” del film, contenuta nei DVD e Blu-ray dal 2003 in poi, non si vede il chestburster fuoriuscire ma solo lo sguardo rilassato di Ripley, come voleva lui.

Lo sbrigativo finale della Special Edition

Fincher confessa che l’idea di abbandonare la produzione sin dall’inizio non gli era sconosciuta, soprattutto quando si è reso conto che la situazione era drammatica, ma giustamente fa notare che per un regista esordiente mollare il suo primo grande incarico sarebbe stato peggio che fare di tutto per portarlo a termine, e vista la carriera di Fincher direi che ha avuto ragione.

Quello che Fincher dispiace è, secondo lui, di non essere riuscito a creare un film che distraesse il pubblico dai problemi della vita quotidiana. Mentre infatti il regista era sdraiato sulla poltrona del suo dentista, il dottore che gli trapanava un dente gli ha spiegato:

«Capisci, quando sono uscito dal cinema non ero distratto dall’AIDS, dalle rivolte nelle strade, dalla paura di altre culture. Era ancora tutto lì.»

Regola dell’intrattenimento americano, ci spiega Fincher, è che un film debba distrarre gli spettatori dai loro problemi, e sente di aver fallito sotto questo punto di vista, mentre un terzo Alien spara-tutto magari avrebbe funzionato meglio.

Dài, Siggie, almeno una sparatoria fammela fare…

Arrivato il momento di parlare dei progetti in corso – che non bisognerebbe mai anticipare, altrimenti è sicuro che non andranno in porto – Fincher lancia la bomba:

«Stiamo parlando… (ride) Oh Dio, stiamo davvero parlando di fare “The Avengers”. Non voglio farlo con Mel Gibson. Cioè, amo Mel Gibson ma ho una mia versione in testa, magari con Charles Dance nel ruolo di Steed. Magari farò una grande versione in bianco e nero di “The Avengers”, in pieno stile anni Sessanta.»

Per i giovani, non c’entra niente la Marvel: “The Avengers” era una nota ed amata serie britannica che in Italia si chiamava “Agente speciale”, e il film a cui fa riferimento Fincher lo girerà invece Jeremiah S. Chechik con il titolo The Avengers – Agenti speciali (1998), con protagonisti Ralph Fiennes e Uma Thurman.

Come finisce questa storia ce lo racconta il citato saggio di Sharon Waxman.

Scoraggiato dall’esperienza di Alien 3 («è stato un bagno di sangue!») e demoralizzato dalle critiche negative che il film colleziona alla sua uscita, Fincher sente di aver perso l’occasione di entrare nel grande giro, finché a sorpresa arriva una telefonata di Steve Soderbergh, che gli dice: «Ho capito cosa hai cercato di fare con questo film, si sente che c’è dell’ottimo lavoro dietro». Con questi complimenti arrivati da un nome noto, Fincher si rincuora, e che il non essere supportato (anzi osteggiato) dalla Fox non era una sua mania di persecuzione lo dimostra Bill Mechanic, che nel 1996 dirige la major e propone a Fincher il progetto Fight Club. Ma prima lo rassicura: non sono più i tempi di Joe Roth, sono finiti i tempi di Alien 3. In pratica, la Fox ammette ufficialmente che quello è stato un ascensore per l’inferno, tutto in discesa. (In realtà non è vero niente, la Fox è ancora specializzata in disastri totali e tombali, come di lì a un anno avrebbe iniziato a testimoniare Joss Whedon, distrutto dalla terribile esperienza di scrivere Alien Resurrection, ma questa… è un’altra storia.)

In conclusione, per “Film and Video” n. 13 (ottobre 1997), Iain Blair chiede a Fincher se il grande successo di Se7en (1995) lui lo intenda come una rivalsa dopo i problemi di Alien 3.

«Non direi. Io ragiono sulla lunga distanza, riguardo alla mia carriera. Hitchcock ha fatto 75 film: 6 sono meravigliosi, 35 sono ignorati da tutti. Sfortunatamente viviamo in tempi in cui servono due anni per fare un film. Magari sono lento io, ma non farò mai 75 film.»

(continua)

L.

– Ultime indagini:

8 pensieri su “Alien 3 (1992-2022) – 7. La versione di Fincher

  1. Grazie Lucius, hai fatto una splendida raccolta di interviste che non avevo mai letto e si conferma Fincher-mito e la Fox una manica di stronzi. Per fortuna ha poi trovato la sua strada.
    Mi sa che la sfortuna più grande della saga aliena è che è stata in mano alla Fox per tutto questo tempo.

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