ALIEN 3 by John Fasano (1)

Dalle mie traduzioni del 2003 ripesco la versione di un altro dei “padri mancati” del progetto Alien III: John Fasano (scomparso nel 2014 per un attacco di cuore), su soggetto di Vincent Ward e John Fasano.

John Fasano (1961–2014)

Questa è in assoluto la migliore delle sceneggiature scritte per il film, di molto superiore a quel pastrocchio visto al cinema: anche perché il film diretto da David Fincher attinge a piene mani a questa storia, utilizzando elementi presi anche dalle altre sceneggiature rigettate.

Nel sesto disco del cofanetto “Alien Quadrilogy” c’è un breve documentario in cui Vincent Ward racconta l’intera vicenda del soggetto che ha scritto, senza mai citare Fasano. Da quanto raccontato da Ward – che presenterò la settimana prossima – si può capire l’intervento di Fasano nel cercare di dare ordine al soggetto originale, con idee molto nuove e coraggiose nel concepire il “nuovo alieno”.

E finalmente… abbiamo Ripley!


ALIEN III

by John Fasano

(prima parte)


«Ma come potrai morire quando verrà il tuo tempo,
Narciso, se tu non hai una madre?
Senza una madre non si può amare.
Senza una madre non si può morire».

Herman Hesse


Lo schermo è nero.

Appare un punto di luce. Rossa. Una brace. Una fornace per il vetro. Le braci scoppiettano. Fiamme. Il fuoco arde. Un fiume di vetro fuso riscaldato dalla fornace ad oltre 700 gradi. Un intenso calore.

Una fabbrica di vetro.

La fiamma tremolante crea ombre danzanti sulle pareti di legno grezzo, rovinato da anni di caldo intenso. Fumo che crea una nuvola oscura .

Un uomo su una stretta sporgenza, a circa venti piedi dal piano di lavoro del vetro. I suoi vestiti sono medievali. Una casacca di tessuto ruvido: è un monaco. Tiene le tende della finestra aperte, per far uscire il fumo.

Il monaco si gira, e scende dalla sua postazione con l’aiuto della “Volpe mobile”, una primitiva carrucola fatta a mano. Atterra nelle vicinanze della fornace del vetro, circondata da altri monaci.

Con delle aste di ferro soffiano e danno forma al vetro fuso e staccano i pezzi finiti: vecchia scuola.

Un particolare monaco dalla pelle scura, quasi cinquantenne. Agita la sua asta di ferro lunga un metro e mezzo nel vetro fuso, ma sta guardando qualcos’altro, che gli ricorda una canzone. Una voce da tenore si solleva alta nell’aria. Questo è fratello Kyle.

FRATELLO KYLE:

Lui spera nella discesa di una stella,
dov’è la sua paziente fortuna.
Lui conosceva il corso di ogni malattia,
fosse questa fredda o calda, umida o secca.
Fratello John, vorrebbe essere un dottore.

[In originale è «physick», gioco di parole intraducibile tra physic, “medico”, e sick, malato. N.d.R.]

Si vede l’oggetto della canzone: fratello John. [Al cinema diventerà il personaggio interpretato da Charles Dance. N.d.R.]

Non ancora quarantenne. Di aspetto forte, ma con gli occhi impauriti. Paura che nasce dalla mancanza di una fiducia in se stesso. Una bella faccia, se non altro.

Sta impastando una densa mistura in un contenitore. Vicino a lui c’è un altro monaco seduto, tenendosi le mani e con la casacca tirata su, rivelando una brutta ustione.

FRATELLO KYLE:

Si prenderà cura di te velocemente,
con delle bottiglie dal suo scaffale.
Ma non riesce a curare così facilmente
il devastante suo privato male.

Fratello John smette di impastare.

FRATELLO JOHN (rivolto a Kyle): Può bastare.

Prende un po’ della densa mistura con le dita e la applica all’ustione sul braccio del monaco. Il monaco ferito sussulta al contatto con la sostanza.

JOHN (al monaco ferito): Rilassati. (Rivolto poi a Kyle) Conserva i tuoi polmoni per usi migliori.

KYLE: Sì, dottore.

Kyle sorride, toglie l’asta dal vetro fuso – una polti­glia bianca di vetro bollente rimane appesa all’asta. La spalma su un pezzo di ferro levigato, poi comincia a soffiare un contenitore a forma di bottiglia. John applica un bendaggio alla ferita.

JOHN: Stai attento a non bagnarla. Vai a casa al massimo per l’ora di cena e non venire a lavorare domani.

MONACO FERITO: Ma, John…

JOHN: Lo dirò io all’abate. Per oggi puoi restare. Sei stato fortunato ad esserti bruciato solo contro la fiancata della fornace. Se anche solo un po’ di quel vetro avesse toccato il tuo braccio… (Si indica l’estremità dell’avambraccio) Ti avrebbe trapassato da parte a parte.

Il monaco trema al pensiero. Suonano le campane.

JOHN: È già pomeriggio avanzato. Ora vai.

MONACO FERITO: Grazie, John. Io…

JOHN: Non ti preoccupare. Vai!

Il monaco ferito se ne va, con il braccio bruciato attaccato al petto. John raccoglie la sua roba. Arriva Kyle.

KYLE: Ottimo lavoro.

JOHN: Grazie, ma io non sono Padre Anselmo.

KYLE: Tu sei tu, che è anche meglio…

Kyle lo spinge attraverso la porta nel salone pieno di monaci in casacca. I loro canti riecheggiano per tutto l’edificio. I pavimenti di legno scricchiolano sotto i loro pesi. Ovviamente questo è un monastero medievale…

KYLE: L’abate sarà contento.

JOHN: Ti prego.

KYLE: Ti prego cosa?

JOHN: Ti prego di non dirglielo. Almeno finché non saprò se ci sarà stata infezione.

KYLE: Tu vuoi essere il medico dell’Abbazia e ancora non hai imparato la prima regola: non ti preoccupare dei pazienti.

John si fa scuro in volto.

KYLE: Scusa, non avrei dovuto. Guarda, io so come dovresti…

JOHN: No, non lo sai. Ma grazie ugualmente.

Alla fine del salone c’è una larga scala. Un flusso costante di monaci che scendono i gradini, provenienti dai piani alti, e tutti diretti al refettorio. Kyle comincia a scendere, John invece a salire.

KYLE: Non vieni giù?

JOHN: Ho qualcuno che mi aspetta.

Kyle svanisce nella folla. John sale. La scala è un fiume di casacche marroni che si affrettano a scendere. John è l’unico che si muove in direzione opposta. Esce dalla scala.

Al piano di sopra c’è un corridoio dritto con delle porte. John si dirige verso una in particolare. Apre la porta della sua camera: un vecchio cane giace in attesa, sdraiato su quello che una volta era stata una casacca e che ora è il suo letto. Alla vista di John si alza.

JOHN: Vieni qui, Mattias.

Mattias, il cane, gli corre incontro. Monaco e cane svaniscono, riprendono le scale facendosi largo fra una dozzina di monaci che scendono.

La biblioteca è un’ampia stanza piena di tavoli di legno con basse panche lungo le navate laterali completa­mente piene di libri, di tutte le dimensioni e forme. Migliaia di libri, a colpo d’occhio. Da ogni libro pende una lunga catena, lunga abbastanza da permettere di portare il libro solo fino al tavolo più vicino.

Un monaco corpulento: fratello Philip. Sulla cinquantina, con una grossa chiave appesa alla sua cintura. Guarda i pochi ritardatari rimettere a posto i libri sugli scaffali per poi andarsene, così da unirsi a loro…

Nel corridoio appena fuori la Biblioteca John si appoggia al muro appena Philip esce. Mattias è fuori vista.

PHILIP: Fratello John.

JOHN: Fratello Philip.

PHILIP: Vuoi ancora nutrire la mente invece del corpo?

JOHN: Le mie regole mi impongono di nutrire chi ha fame.

Philip si dà una pacca sullo stomaco e si allontana.

PHILIP: Anche le mie. Divertiti finché sei solo, e ricorda: nessun libro lascia la biblioteca.

JOHN: Come potrei dimenticarlo? Buon pranzo…

John osserva il corpulento bibliotecario scendere le scale. Quando se n’è andato John scioglie un bottone della sua casacca e fa uscire Mattias.

JOHN: Perfetto.

Entrano in Biblioteca.

La sezione medievale: i libri più antichi. John si dirige verso questa sezione. Mattias si siede in un angolo: il suo posto abituale. John si alza sulle dita dei piedi sugli scaffali per recuperare un vecchio tomo, con un accen­no di sorriso sulle labbra. Prende il libro e lo porta sul tavolo più vicino. Si siede vicino al cane. Si schiarisce la voce, apre il libro, e comincia a leggere…

JOHN: «Nell’anno del Signore 1348 io, fratello Gerhado dell’abbazia di Minorite ho aiutato a seppellire l’abate ed i miei sessanta compagni monaci…»

(VOCE FUORI CAMPO): A volte credo che ti piacerebbe.

John si gira di scatto.

L’abate, capo del monastero. Pare giovane con i suoi settant’anni. La sua casacca è circondata da una cate­na di legno intarsiata al posto della cintura. Si avvicina al tavolo.

John chiude il libro e si alza, con il capo chino in segno di rispetto.

JOHN: Abate, io… io credevo che nessuno…

ABATE: Che nessuno sapesse? Giusto Philip, forse. L’ho incontrato venendo su. Mi ha detto che eri venuto solo, ma io lo sapevo meglio di lui. (Gratta il collo di Mattias.) Ciao, Mattias. Come stai, ragazzo? (Il cane gongola in risposta.) Sai cosa ne pensa Philip del pelo e del respiro di Mattias. Devi tenerlo fuori da qui.

JOHN: Gli piace quando gli leggo… io non posso…

John guarda in basso affranto. Benché sia un quarantenne si sente come un adolescente alla presenza dell’abate. Questi prende una grossa chiave dalla sua tasca.

ABATE (sorridendo): Qualcuno deve aver lasciato questa questa catena aperta. Prendi con te il libro.

Porge la chiave a John, che rimane scioccato – questo è un grande onore.

JOHN: Padre, io…?

ABATE: Kyle mi ha detto che hai fatto un ottimo lavoro alla fornace oggi.

JOHN: Mi riservavo il giudizio finché il paziente vive.

John prende la catena e libera il libro. Restituisce la chiave.

ABATE: Andrà tutto bene. Padre Anselmo è stata… una perdita inaspettata. Ma tu sarai all’altezza. (L’abate s’incammina verso la porta.) Riporta il libro prima della fine della cena. Oh, e ovviamente io non vi ho visto.

JOHN: Grazie. (Rivolto poi a Mattias.) Andiamo via, ragazzo.

John prende il suo libro, si dirige alla scala a spirale, con Mattias al suo seguito, e sale.

Fra i meccanismi del campanile una porta si apre sul tetto dell’abbazia. L’inquadratura si allar­ga e rivela che il tetto dell’abbazia altro non è che la superficie di Arceon. Notte.

La porta si è aperta sulla superficie di un pla­netoide! L’orizzonte incurvato è interrotto solo dall’altezza del campanile dell’abbazia. Il fumo fuoriesce dalle ventole installate sulla superficie. La maggior parte del resto della superficie del pia­neta è composta da acqua.

Questo è Arceon. Una costruzione umana orbitan­te di cinque miglia di diametro. Costruito dalla Compagnia dell’Ordine Speciale. L’orbitante, per ragioni che si scopriranno più avanti, è stato rico­perto da legno.

John cammina sulla spiaggia di un grande mare. Siede su un tronco e guarda in alto. I suoi occhi si concentrano sul cielo notturno. Stelle sfrecciano sulla navata celeste.

John sorride a Mattias, respirando profondamente. L’atmosfera in superficie è più rarefatta ma più fresca. Apre il libro e ricomincia a leggere.

JOHN: «Nell’anno del Signore 1348 io, fratello Gerhado dell’abbazia di Minorite ho aiutato a seppellire l’abate ed i miei sessanta compagni monaci, giorno dopo giorno, uno per uno, finché non rimasi solo io. Rimasi finché potei, poi col mio cane…»

Mattias rizza le sue orecchie in una direzione: la sua direzione preferita.

JOHN: «… fuggii. Ho messo questo su pergamena per paura che questa pestilenza – questa Morte Nera – pos­sa colpire la mia mano. (interruzione) Questo fu finito da un’altra mano…»

John chiude il libro. Qualcosa ha catturato la sua attenzione, qualcosa fra le miriadi di puntini luminosi nel cielo. Milioni di miglia lontano… Una delle stelle, la più brillante di tutte… si sta muovendo abbastanza veloce­mente da lasciare una coda nel cielo. Una cometa.

John rimane fermo a guardare la stella che diventa sempre più luminosa, sempre più vicina. John è raggiun­to da altri tre monaci più vecchi di lui. I quattro uomini osservano il cielo. La stella è sempre più vicina.

Arrivano altri monaci, una dozzina, un centinaio. Escono sulla superficie del pianeta, fuori dalle porte di legno. Ora sono trecento, con le teste inclinate verso il cielo e le bocche spalancate.

Un sottotitolo specifica:

COLONIA RELIGIOSA DI ARCEON
POPOLAZIONE: 350 esiliati
CRIMINI: Eresia politica

La stella sembra incendiarsi toccando l’atmosfera del planetoide. Centinaia di monaci sgranano gli occhi quando la nave – la stella – passa proprio sopra le loro teste, con la sua coda di fuoco.

John leva le mani al cielo – per toccare la stella. La sua pelle sembra infuocarsi al passaggio della nave, che cade in mare con un grande sibilo. Getti di vapore si innalzano nell’aria. L’acqua ribolle, facendo affiorare a galla i pesci morti nell’impatto. John è il primo a raggiungere la spiaggia, dove delle piccole barche da pesca sono squassate dalle onde. È il primo ad entrare in acqua, mentre gli altri arrivano in seguito correndo: non ascolta le grida di avvertimento.

Alba sul mare. Il sole si affaccia sull’acqua scura. Le mani di John muovono i remi di legno provocandosi delle ferite sanguinanti alla mani. Strappa coi denti un pezzo della sua casacca e si fascia le mani.

La stella – La nave – La nave stellare.

La Narcissus, la scialuppa di salvataggio n. 4 della Sulaco galleggia fra le onde. Metallo bianco scurito dal calore. John vi sale subito saltando dalla sua imbarcazione. Vicino al portello c’è un pannello i cui simboli deno­tano l’apertura in caso d’emergenza. John apre il portello esitante, rivelando una sottile leva di metallo. L’aziona portandola verso il basso. Il portello si apre con un rumore sordo. L’entrata è buia. John si fa il segno della croce e comincia ad entrare.

KYLE (fuori campo): Attento!

Quasi cade fuori dalla nave. Guarda indietro: gli altri monaci stanno arrivando velocemente. Kyle gesticola animatamente:

KYLE: John! Aspetta, non entrare!

John si volta verso il portello aperto. L’aria sta uscendo fuori dall’interno: lo sente sulla pelle. Aria artificiale. Entra ed è subito avvolto dalle tenebre. La porta si chiude alle sue spalle con grande frastuono.

Buio. Luci rosse lampeggianti. John rimane immobile mentre i suoi occhi si abituano al buio. Vede: il tubo criogenico di Newt. Il vetro è rotto. Una piccola luce rossa lampeggia sopra il tubo – una voce computerizzata gradevole sta ripetendo:

VOCE COMPUTER: Sigilli infranti… sigilli infranti…

John si ritrova a muoversi verso il tubo, sbirciando all’interno.

C’è una chiazza di sangue nell’interno immacolato. Sangue vecchio, coagulato, marrone. Qualsiasi cosa sia successa qui, è successa tempo fa. Le macchie color ruggine portano verso il pavimento.

I suoi occhi seguono le chiazze verso una pozza di sangue proprio davanti al pannello di controllo. C’è la testa di una bambola ma nessun corpo in giro.

John si guarda intorno. Una parte di lui vorrebbe andarsene da quell’inferno ma combatte la sua paura. È un dottore – o almeno cerca di esserlo – e qualcuno qui potrebbe aver bisogno del suo aiuto. Tira fuori la garza.

In giro ci sono tantissime luci: di emergenza, computerizzate, ecc. Centinaia di lucette. Come le stelle nel cielo.

Sono decenni che non vede tanta tecnologia, e mai comunque così da vicino. Continua ad addentrarsi nella nave: la sua paura ora è sostituita dalla curiosità. Segue le luci su un pannello verde.

Un monitor sta trasmettendo un filmato disturbato: una donna con una bambina sono in primo piano. Le braccia della donna sono intorno al corpo della bambina, in un atteggiamento molto protettivo e materno.

La donna sta parlando, ed il suo messaggio viene ripetuto in continuazione.

DONNA: … andando sul ponte quattro. L’equipaggio della S.S. Sulaco e tutti i marine sono morti. I sensori della nave hanno interrotto il ciclo dell’ipersonno. Un uovo alieno nascosto si è aperto. Bishop ed Hicks sono stati uccisi. Lo xenomorfo ha infestato l’incrociatore. Newt ed io stiamo andando sul ponte quattro. L’equipaggio della…

Il tono allarmato del messaggio riaccende le paure di John. Si muove con più esitazione lungo le pareti della nave, seguendo il percorso degli strumenti luminosi… finché non trova un pulsante. Lo preme. Qualcosa con dei tentacoli cade sulle sue braccia… ma è solo una maschera ad ossigeno.

John sente il cuore in gola mentre continua a camminare. La sua mano incontra un sensore che risponde accendendo una luce ed emettendo un sibilo. Un neon si accende lentamente, rivelando un altro tubo criogeni­co vicino a quello vuoto di Newt. Ancora funzionante. John ci si avvicina con cautela. Riesce a distinguere l’oc­cupante attraverso il vestro… una donna. La donna del filmato sullo schermo di prima. È Ripley.

Immersa nell’ipersonno, indossa un top e un intimo bianco. Cristo, è bellissima. John passa lo sguardo dalla Ripley sul monitor a quella in carne e ossa. Si mette in ginocchio: il fascino ha sostituito la paura di nuovo. Avvicina il volto al vetro… più vicino a lei. Una luce si accende. John si gira all’improvviso verso la sorgente di luce: la porta aperta. Kyle ed altri monaci.

KYLE: John, che roba è questa? Una nave per l’approvvigionamento?

JOHN: No, Kyle: c’è qualcuno dentro…

Il secondo monaco guarda Kyle.

SECONDO MONACO: Questo è proibito.

KYLE: John, vieni via da lì.

JOHN: Non voglio certo rimanere qui. Ma devo portare fuori la donna prima che tutto coli a picco. Venite, datemi una mano…

KYLE: Donna? Senti, non è una nave di approvvigionamento, quindi questa è tecnologia proibita per noi. Vieni fuori subito!

John volge lo sguardo a Ripley. Una tastiera è montata davanti al tubo criogenico. Un pulsante rosso: “Apertu­ra d’emergenza”.

JOHN: Va bene…

Preme il pulsante. Il tubo si apre con un rumore di aria compressa. I monaci sulla porta sussultano al rumore.

Stacco su: esterno giorno. La nave immersa nel mare. Ripley, priva di sensi, è stata caricata su una barca, sorretta da John. La testa di lei si muove con l’ondeggiare della barca.

PRIMO MONACO (reverente): Una nave spaziale…

SECONDO MONACO (più reverente): Una donna…

KYLE: Non saresti dovuto entrare…

JOHN: Sono un dottore, se non sbaglio. (Scosta i capelli di Ripley dalla sua faccia.) Potrebbe essersi persa.

PRIMO MONACO: È passato tanto tempo dall’ultima volta che ho visto entrambi.

SECONDO MONACO: La nave non è ancora affondata, guardate! Che cosa ne facciamo?

KYLE: Che cosa c’era dentro?

JOHN: Luci. Tante luci…

TERZO MONACO: Rimorchiamola, portiamola a riva.

SECONDO MONACO: È male.

PRIMO MONACO: È solo roba tecnologica.

SECONDO MONACO: Tecnologia malvagia. Guardate quei poveri pesci.

TERZO MONACO: L’abate saprà cosa fare…

KYLE: Solo luci?

JOHN: Macchinari. Pulsanti. Metallo.

SECONDO MONACO: Vedete? Guardate i pesci!

TERZO MONACO: L’abate saprà…

SECONDO MONACO: Sono cotti! Questi pesci si sono cotti!

JOHN: Migliaia di luci. Come stelle. Come il Paradiso in Terra!

Ripley si agita fra le braccia di John. Mugugna. Lotta per uscire dal suo stato comatoso… si guarda intorno attraverso gli occhi semichiusi. È circondata da monaci incasaccati. Monaci? Chiude gli occhi. Cerca di cancel­lare l’immagine. Li riapre: sono ancora lì. Guarda le mani insanguinate che la stringono – realizza che è seduta sul grembo di qualcuno. Si gira. John le sorride, amichevolmente.

Ripley scuote la testa. Cerca di parlare, ma le sue labbra non emettono suono. Si sporge e vede la nave sulla superficie dell’acqua. Chiude gli occhi, lottando con le ragnatele nella sua testa. Cerca di mettere a fuoco la nave. Ricorda. Si gira verso John, cerca di parlare…

RIPLEY: Aspettate… Newt…

Poi perde conoscenza.

Dissolvenza in nero

(continua)


L.

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16 pensieri su “ALIEN 3 by John Fasano (1)

    • Visto quanto ha combinato nel cinema (zero) temo che Gibson non fosse proprio portato per la sceneggiatura, che sebbene si scriva con gli stessi strumenti di un romanzo fa però parte di un universo molto lontano. Romanzieri decisamente migliori di lui hanno fallito alla prova della sceneggiatura, quindi non c’è da stupirsi 😉
      L’idea è di Ward (lunedì prossimo spiegherò meglio) ma Fasano ha sistemato tutto e secondo me ha scritto la migliore fra le sceneggiature rigettate, oltre che quella più depredata dal film finito, che ovviamente ha preso solo elementi sparsi raffazzonati alla meglio.

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  1. Sono in ritardo, ma piano piano ci arrivo. Questa prima parte mi ha subito catturato. Si intravede l’opera predatoria del film originale, come pure intravedo come in questo vi fosse una coerenza o una ricerca di una coerenza del nuovo scenario. Nel film originale è una toccata e fuga, rimasto un tema che aleggia, sospeso, che non riesce mai a comunicare allo spettatore un’ambientazione verosimile.

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