[2017-05] Alien: Covenant (novelization) 5. Estratti

Quinta parte della mia scheda-recensione del romanzo Alien: Covenant di Alan Dean Foster, tratto dal pessimo film omonimo di Ridley Scott.
Ecco degli estratti, in parte non presenti nel film visto al cinema.


Indice:


1

Non stava sognando. Non ne era in grado. Quella mancanza non era intenzionale né consapevole, era solo una conseguenza della sua natura. Per ciò che lo riguardava, la sua unica intenzionalità consisteva nell’evitare sorprese.
L’assenza di un inconscio escludeva la facoltà di astrazione e l’incapacità di elaborare pensieri speculativi gli impediva di sognare. Tuttavia, per quanto difficile da definire, qualcosa c’era. In ultima analisi, solamente la creatura poteva descrivere il proprio stato di non essere. Soltanto lei poteva capire che cosa non sapeva, non vedeva, non percepiva.
Poiché non sognava, non provava sofferenza, gioia, né alcuna sfumatura – per quanto infinitesimale – di emozione: avvertiva soltanto un perpetuo stato di «qualcosa». Una quasi esistenza.
Poi, una sensazione gli indusse un pensiero. Analisi: «Possibile percezione visiva». Un requisito per la stimolazione neurale ausiliaria. Attivazione dei neuroni, trasmissione degli impulsi elettrici e infine una piccola, ma inequivocabile, reazione neuromuscolare.
Aprì gli occhi.
La creatura non poteva vedere il proprio aspetto. Se avesse potuto, le funzioni cognitive superiori avrebbero riconosciuto un volto dall’aspetto umano. Perfettamente liscio, giovane, quasi lucido nella sua freschezza e non turbato da preoccupazioni o affanni. Tratti scolpiti e attraenti. Occhi azzurri, sguardo fermo. Un volto sul quale non era possibile leggere i pensieri che attraversavano la mente. Sia il volto sia la mente erano stati progettati e programmati, ma solo la seconda era capace di cambiamento.
Ricezione aurale. Individuazione di suoni esterni. Attivazione di altre vie neurali. Sentì una voce e decodificò le parole. Capirle era facile. Più ancora del risveglio.
«Come ti senti?»
Calma. Doveva muoversi con cautela, la consapevolezza era cruciale. Il corpo era impaziente, ma doveva restare subordinato al ritmo della mente. Per prima cosa eseguì un test preliminare, poi uno più approfondito per verificare l’effettivo funzionamento di vari sistemi in simultanea.
Con lentezza e metodo sollevò le palpebre e le riabbassò. La domanda esigeva una risposta verbale, cioè una coordinazione di respiro, movimento delle labbra e della lingua.
«Vivo.» Anche la voce era calma, controllata. Normale. Con appena una punta di sorpresa. Ma non per l’interlocutore. «Palpebre… sento… le palpebre.»
«Molto bene», disse la voce. «Cos’altro?»
«La vita. Le palpebre.» Per accertarsene, la creatura… No, era maschio: il programma lo aveva appena confermato… Per accertarsene, «lui» sbatté di nuovo le palpebre. Stesse vie neurali, stesso risultato, ma un po’ più rapido. Ottimo. Il buon esito della ripetizione confermò la corretta funzionalità.
Accanto a lui, un uomo sorrise. La sua espressione comunicava soddisfazione, non calore. Inclinò la testa e lo squadrò.
«Che cosa vedi?»
Poi, non avendo ottenuto risposta, l’uomo aggiunse un incoraggiamento, o forse un ordine: «Parla».
Con lo sguardo passò in rassegna tutta la stanza, analizzando e decodificando una lunga sequenza di immagini e suoni. Niente che non fosse in grado di gestire. Assimilò i dati ambientali senza sforzo e con un bonus imprevisto: la soddisfazione che deriva dalla capacità di svolgere una funzione con efficienza. Una cascata di informazioni tramutata in conoscenza.
L’ambiente era spazioso. Dal pavimento di vetro e quarzo bianco, mobili antichi e moderni spuntavano come fiori rari in un giardino ben curato. Il design era squisito, il gusto impeccabile. Quadri raffinati alle pareti che, in virtù dei loro materiali, sembravano anch’esse opere d’arte. L’illuminazione variava a seconda degli spazi e delle necessità.
Continuò a osservare la sala, identificandone i particolari ed esprimendoli in forma verbale, come richiesto.
«Bianco… stanza… sedia. Anzi: trono. Firmato Carlo Bugatti. Materiali: legno di noce e metalli. Peltro, rame, ottone. Qualche intervento di restauro. Pianoforte. A coda. Steinway. Adatto a ogni forma compositiva, da Pergolesi a Penderecki a Pang-lin. Allitterazione intenzionale.»
Gli occhi continuarono a frugare l’ambiente e a trasmettere informazioni al cervello. «Ragnatela in un angolo», proseguì. «Pholcus phalangioides. Ragno sinantropico, caratteristico degli habitat umani. Comunemente chiamato “ragno ballerino” per le zampe lunghe e l’andatura dinoccolata. Innocuo. Innocuo e ballerino anche Fred Astaire, protagonista di Papà gambalunga, film del 1955.»
Mentre parlava, non aveva smesso di raccogliere dettagli e assorbire informazioni. Identificare e valutare. «Quadro. Natività di Piero della Francesca. Artista italiano vissuto tra il 1416 e il 1492…»
Infine il suo sguardo cadde su Weyland e la voce si spense.
«Sono tuo padre», disse Weyland, nel silenzio.
Sir Peter Weyland. Nato il 1° ottobre 1990. Insignito del titolo di baronetto nel 2016. Lo scrutò a lungo prima di replicare. «Umano.»
«Sono tuo padre», ripeté Weyland.
C’era un pizzico di irritazione nella sua voce o era semplice impazienza? Lui decise di non contraddirlo oltre. Non c’era niente da guadagnarci. In mancanza di altre domande, restò in silenzio.
«Sbatti le palpebre», ordinò l’uomo.
Lui obbedì. Adesso non aveva più bisogno di eseguire un’analisi prima di compiere quel movimento. La reazione era semiautomatica: una pura e semplice operazione neuromuscolare.
Weyland inspirò appena prima di pronunciare con chiarezza il comando successivo: «Cammina».
Lui abbandonò la posizione non-in-piedi e camminò. Non aveva ricevuto istruzioni specifiche sul percorso da compiere, perciò lo scelse da solo, sostando davanti a varie suppellettili. Le studiò in silenzio senza concedere alcuna comunicazione verbale spontanea.
«Perfetto», disse Weyland.
Lui si girò, distogliendo l’attenzione dagli oggetti inanimati per riportarla sull’umano. «Davvero?»
«Vuoi sapere se sei perfetto?» In quella particolare fase dello sviluppo cognitivo, Weyland sembrava un po’ sorpreso della domanda. Sorpreso, ma compiaciuto: implicava molto più della semplice capacità di conversazione. Certo, l’evoluzione era prevista, ma non a uno stadio tanto precoce.
«No», lo corresse lui. «Voglio sapere se sono davvero tuo figlio. Alcuni aspetti percettivi non suffragano questa affermazione.»
Weyland ribatté subito, come se avesse previsto di dover replicare a quella puntualizzazione: «Sei una mia creatura».
Analisi. Risposta: «Non significano necessariamente la stessa cosa».
«Dettagli semantici», concluse Weyland. «Io ti ho dato un’identità, tanto basta. È sufficiente ai tuoi scopi.»
Questa volta, nessuna obiezione, solo una semplice domanda: «Come mi chiamo?»
L’espressione del magnate diventò perplessa. A questo non era preparato. Spazio dunque all’improvvisazione, un elemento cruciale per il successo quanto la preparazione.
«Dimmelo tu», rispose. «Sceglilo da solo come tuo primo atto di autodeterminazione.»
Il suo sguardo tornò a sondare la stanza. L’ambiente offriva numerosi spunti di ispirazione. I suoi pensieri intrecciarono nuove vie neurali. Il nome che avrebbe scelto non doveva essere troppo complesso o altisonante. Sarebbe stato significativo, questo sì, ma facile da pronunciare e da ricordare. Niente di invadente dal punto di vista emotivo.
I percettori ottici si fermarono su una statua scolpita nel marmo di Carrara e la identificarono come il David di Michelangelo. Sulla sua superficie si potevano distinguere le piccole asperità lasciate dallo scalpello. Forse si trattava di una copia, ma l’opera risultava ugualmente intrisa di autentica creatività. Una cosa non escludeva necessariamente l’altra. Si avvicinò.
«David», disse. Autore: Michelangelo, figlio di Ludovico Buonarroti Simoni. Opera terminata e installata nell’estate del 1504. «Noi siamo David.» Tese una mano per entrare in contatto con la pietra. Non colse alcun cedimento: al tatto non emanava calore né umidità. Così umana eppure così aliena.
«Bellissima e fredda.»
«Perfetta da ogni punto di vista», concordò l’uomo.
«David», mormorò lui. Pronunciato ad alta voce in quella stanza raffinata, lussuosa e sterile, il suono era soddisfacente. Sì, era il nome giusto. Si girò verso Weyland. Una scarica di neuroni generò un lampo di curiosità. «Perché mi hai creato?»
L’espressione del magnate si fece esultante. «Pensiero interrogativo astratto: molto bene.»
Non era una risposta, ma nemmeno la escludeva. David ritentò: «Perché mi hai creato, padre?»
La reazione fu evasiva. Rivelava interesse e curiosità. E poiché David stava sperimentando le stesse sensazioni, la comprese. «Suona», lo esortò l’uomo indicando il pianoforte a coda.
David lo raggiunse e si fermò un momento a osservare la panchetta. Ne indagò la funzione e calcolò l’altezza e la stabilità, poi si sedette senza difficoltà e chiese: «Che cosa?»
Weyland rifletté un momento. «Wagner», rispose infine.
Senza voltarsi o scomporsi, David domandò: «Brano?»
Per la seconda volta, Weyland lo autorizzò a esercitare il suo libero arbitrio.
«Decidi tu.»
Nessuna esitazione. «L’ingresso degli dei nel Walhalla
Un altro sguardo sorpreso. «Senza l’orchestra sarebbe anemico. Come la Gotica di Brian senza i cori. O il Mount St. Helens di Hovhaness senza le percussioni.»
«Credi?» David non era convinto. «Vediamo.» Cominciò a suonare.
Ma non si limitò a eseguire alla perfezione il celebre brano tratto da L’oro del Reno. Stava offrendo una propria interpretazione originale della partitura. Ascoltando quelle note trascinanti, Weyland si compiaceva della sua creatura.
«Raccontami la storia», gli disse.
«Si tratta del finale dell’opera L’oro del Reno.» La linea melodica era solenne, ma David non sembrava emozionato. Il suo tono restò monocorde, sia commentando il pianissimo sia il fortissimo. Al momento opportuno, lo strumento tremava sotto le sue dita, ma la voce no.
«La debolezza, crudeltà e avidità degli esseri umani hanno disgustato gli dei, che dunque decidono di abbandonare per sempre la Terra e ritirarsi nella loro sede celeste, la fortezza di Walhalla. Ma ogni passo del tragitto è gravido di foschi presentimenti, perché gli dei sono condannati, destinati a morire in un incendio catastrofico che li consumerà insieme alla loro reggia. Perché anche loro si sono rivelati venali quanto l’umanità che hanno respinto, e il loro potere è soltanto un’illusione.»
Si interruppe di colpo, a metà del ponte dell’arcobaleno. «Sono false divinità.»
Weyland si incuriosì. «Perché hai smesso di suonare? Stavi andando così bene. La tua interpretazione personale era… perfetta.»
Per la prima volta, David rispose con un’altra domanda.
«Posso chiederti una cosa, padre?»
«Certo.» Di nuovo, Weyland sembrava averlo previsto. «Qualunque cosa.»
Gli occhi azzurri che aveva progettato si puntarono su di lui. «Se io sono una tua creatura, chi ha creato te?» domandò David.
«Ah, l’enigma che ha accompagnato l’umanità attraverso i secoli. Insieme, conto che in futuro riusciremo a scioglierlo. Devi capire che il tuo modo di ragionare è chiaro, lineare e preciso, mentre la risposta a questa domanda non lo è. Almeno considerando le alternative predilette dalla maggioranza degli uomini. Ma noi troveremo i nostri creatori, David. Plurale, perché per quanto concerne la nostra origine, non credo nel singolare.»
«Tu però sei uno solo», lo corresse David. «Singolare.»
«Sì, nel senso più profondo del termine», concordò Weyland. «Sono unico e perciò un’eccezione alla regola.»
David ci rifletté un momento. «Tutti sono convinti di essere unici. Non puoi definirti da solo.»
«Gli altri possono definirmi come meglio credono, ma io rimango della mia opinione. Lo ripeto: troveremo i nostri creatori. Ci riveleremo a loro e ascenderemo insieme al Walhalla.» Incedendo nell’ampio spazio della sala, indicò la scultura di valore inestimabile, un pezzo unico ed espressione suprema del genio dell’artista. L’ altra presenza nella stanza seguiva con lo sguardo ogni suo passo. Lo sorvegliava.
«Tutto questo… i prodigi dell’arte, della tecnica e dell’inventiva rappresentano le massime creazioni dell’umanità.» Voltandosi, restò a contemplare la sua. «E poi ci sei tu, la più sublime. Anche tu sei un’opera d’arte, David.» Abbracciò la stanza con un gesto. «Sei un David straordinario quanto quella statua. Eppure tutto questo, compreso te, non significa niente di fronte all’unica domanda davvero importante: da dove veniamo?»
David si era alzato, spostandosi davanti a un trittico di Bacon. Sul fondale di quelle forme distorte, rispose ancora una volta con una domanda. «Perché parli di un “dove”?» Nella sua voce si era insinuata una nuova enfasi. «La maggioranza degli uomini di cui hai parlato poco fa non crede che esista un luogo delle nostre origini. Che cosa ti fa pensare che loro sbaglino e tu no?»
Weyland fece una risatina sommessa. «L’intera storia della scienza è un susseguirsi di esempi in cui una sparuta minoranza aveva ragione e la maggioranza torto. La scienza stessa ne è la dimostrazione, e anche l’arte. Turner e Galileo hanno scrutato il cielo con finalità diverse, ma condividevano lo stesso spirito. E io sono come loro.»
Per qualche istante tacque assorto. «Mi rifiuto di pensare che l’umanità sia il prodotto fortuito di una reazione molecolare», proseguì. «Il risultato di una semplice coincidenza biologica e di un’evoluzione casuale. E nel dirlo parlo da scienziato. Non mi soddisfa l’idea del colpo di fulmine che dà vita a un brodo di carbonio. C’è qualcosa di più, deve esserci, e noi lo scopriremo, figliolo.» Con un movimento del braccio, indicò la stanza e i suoi tesori. «Altrimenti niente di tutto ciò avrebbe alcun significato.»
David tacque per un momento, prima di rispondere. Non più con una domanda. «Permettimi di esaminare la questione.» A mano a mano che la sua mente assumeva sempre più i contorni di una coscienza individuale, lui acquisiva maggiore sicurezza nell’esprimersi. «Tu mi hai creato, ma sei un essere imperfetto. Lo hai ammesso tu stesso, anche se in modo implicito. Io sono una creatura perfetta, progettata al tuo servizio, ma tu sei un essere umano. Tu aspiri a trovare il tuo creatore, io il mio ce l’ho davanti. Tu sei mortale, io no. Tutte queste sono contraddizioni. Come si possono risolvere?»
Restò a fissare il suo creatore con un’espressione indecifrabile.
Weyland indicò un punto alla propria destra. «Portami del tè.»
La tazza era su un tavolo a meno di un metro da lui. All’uomo sarebbe bastato un solo passo per servirsi da solo. David non si era distratto nemmeno per una frazione di secondo. Continuava a studiare Weyland e la sua espressione impassibile. Lui ripeté la richiesta, in tono appena più imperioso. «Portami una tazza di tè, David.»
Per raggiungere il tavolo, lui doveva attraversare tutta la stanza. La differenza tra le rispettive posizioni non gli era sfuggita, tuttavia obbedì. Prese piatto e tazzina e li tese con garbo a Weyland. Dopo una pausa, breve ma eloquente, Weyland accettò l’offerta e bevve un sorso.
Il magnate aveva risposto alla sua domanda senza sprecare neanche una parola. David era stato creato per servirlo. Il loro rapporto era chiaro e senza appello. Niente dibattiti o discussioni, nessun confronto sui rispettivi meriti. La creatura era al servizio del creatore. Era un dato di fatto, e i fatti – purché dimostrabili – sono inalterabili. Ma secondo le regole della scienza, una dimostrazione richiede una riprova empirica, perché un fatto diventa tale solo quando si sono accumulate prove sufficienti. E il processo richiede tempo.
David restò immobile e silenzioso accanto a Weyland, in attesa di un’altra richiesta o di un nuovo ordine. Lui di domande ne aveva in abbondanza.
Ma aveva tutto il tempo del mondo.


2

Daniels dormiva. E sognava. La linea di confine rispetto ai suoi pensieri abituali era profonda, ma a lei certe distinzioni non interessavano. Le importava solo che i contenuti del suo sonno fossero appaganti.
Qualcosa le sfiorò la bocca. Un tocco leggero, caldo, una pressione delicata ma sufficiente a riscuoterla. Riconoscendone l’origine, la curva appena imbronciata delle sue labbra si distese in un sorriso, poi lei aprì gli occhi.
Sospeso su di lei c’era un volto familiare. Daniels ne conosceva ogni dettaglio, ogni tratto, ogni ruga. Non che queste fossero molte, e comunque non aveva importanza. Col tempo sarebbero arrivate e, con ogni probabilità, una buona parte l’avrebbe causata lei stessa. Era nella natura delle cose. La vita è così.
E in fondo lei ci sperava. Le piaceva l’idea di quell’incisione reciproca sul viso. Una parte di me sul tuo volto, una parte di te sul mio. Vivere e crescere insieme. Marito e moglie e, in futuro, genitori.
Il volto liscio di Jacob si avvicinò a baciarla. «Buongiorno», disse. «Ho spostato il camino.»
Era una nuova informazione, ma non certo una novità. Con un verso a metà tra un gemito e una risata, lei nascose la testa sotto il cuscino. Lui ridacchiò e lo gettò da parte. Lei sbatté le palpebre e i suoi grandi occhi castani gli rivolsero uno sguardo intenerito. Dominavano un volto giovanile eppure serio, con la fronte attraversata da una frangetta severa e una lieve fossetta sul mento. Aveva l’aria di una donna spesso assorta nei suoi pensieri, cui tuttavia non sfugge mai nulla del mondo circostante.
«Coraggio, pigrona. Guarda.»
Strofinando il lato scolorito di un piccolo cubo, Jacob proiettò un ologramma che prese forma sotto i loro occhi e restò sospeso a mezz’aria. Raffigurava un edificio semplice e la resa era così realistica da sembrare reale. Reggendo il cubo sul palmo, usò la mano libera per manipolare l’immagine, facendola ruotare e attivando lo zoom per passare dalla prospettiva esterna all’interno dello stabile. Con un dito sovrascriveva una nota, la ingrandiva per renderla più leggibile e poi la eliminava con un gesto.
Una volta individuata la prospettiva che cercava, spostò di lato una colonna di appunti per mostrare la struttura senza intralci. Il suo entusiasmo era palpabile.
«Ecco, vedi? L’ho trasferito dall’angolo di sudovest a quello di nordovest. Qui sta meglio, non trovi? E in caso dovessimo usarlo davvero come riscaldamento, la nuova posizione migliora la circolazione dell’aria.»
Con un’espressione rassegnata e divertita, Daniels scosse la testa un paio di volte, poi afferrò un cuscino e puntò lo sguardo su suo marito.
«Mi hai svegliata per questo?» esclamò. «Ti prego, dimmi di no.»
«Ho preparato il caffè», rispose lui in tono contrito. «E sta nevicando.»
Lei sospirò, affondò per un momento la faccia nel cuscino, poi si costrinse ad alzarsi.
Sarebbe bastato chiedere e lui gliel’avrebbe portato a letto, ma il suo caffè aveva sempre un sapore strano. Tanto valeva prepararselo da sola. Fuori nevicava davvero. Grossi fiocchi si depositavano sui cornicioni e sui tetti dei palazzi, addolcendo la desolazione del panorama urbano. La metropoli era stanca, scoraggiata, visibilmente allo stremo.
Qualche raro passante affrontava a fatica le strade innevate, ciascuno per conto suo, senza alzare lo sguardo o rivolgere la parola agli altri. Tutti irradiavano una cupezza identica a quella degli edifici che li sovrastavano. La neve, la vita, il futuro non erano fonte di gioia per nessuno.
Preparato il caffè – macchiato e con due zollette di zucchero –, la donna prese la tazza e tornò a letto. Jacob le aveva rubato il posto e ora se ne stava sdraiato a trafficare con la proiezione del modulo, perfezionando questo o quel dettaglio.
«Diventerà la nostra casa, perciò la posizione del camino è essenziale.» Corrugò la fronte. «Ripensandoci, forse stava meglio sull’altro lato. È difficile decidere, senza un’idea precisa del panorama esterno. La circolazione dell’aria è importante, ma non dobbiamo trascurare neanche l’effetto estetico. Non avremo una seconda occasione, quindi non possiamo permetterci errori.»
Lei bevve un sorso di caffè e restò a guardarlo in silenzio. Jacob era innamorato perso della sua capanna da pioniere… e lei di lui. Avrebbe potuto commentare, esprimere un’opinione, se non altro per fargli capire che lo stava ascoltando e che lui aveva la sua attenzione, ma non le andava di interromperlo. Non voleva interferire con il suo sogno.
Voltandosi tornò a sbirciare il paesaggio invernale oltre la finestra. Chissà se nella loro nuova casa avrebbero mai rivisto la neve. Per quanto ne sapevano, il clima poteva anche essere tropicale.
Una voce risuonò nella stanza, ma lei non la sentì. Non era la voce di Jacob e non apparteneva al suo sogno. E nemmeno a quello di Daniels. Era reale.
«Sono le sette e tutto va bene», disse Mamma nel solito tono solenne.
All’annuncio seguì un breve segnale sonoro. Era la registrazione della campana di una nave d’inizio Novecento, recuperata come una sorta di capriccio dai progettisti della Covenant. Un frammento del passato che i costruttori del presente avevano riadattato per il futuro. Una trovata divertente inserita nel programma dall’équipe di ingegneri che, rimasti sulla Terra, non avrebbero mai avuto occasione di sentirla nel suo impiego effettivo.


4

Le sale e i corridoi delle navi di colonizzazione erano grandi per rispondere a una necessità psicologica. Ma non quella dei coloni, che – incoscienti e ignari di tutto – dormivano ancora nelle capsule, in attesa di venire risvegliati una volta arrivati a destinazione.
Perciò non serviva che quelle bare provvisorie, con le cupole trasparenti, fossero granché spaziose. Dovevano soltanto accogliere un corpo sdraiato e le apparecchiature che lo avrebbero nutrito per tutta la durata dell’ipersonno, quindi erano allineate le une accanto alle altre in modo da occupare il minor spazio possibile.
Per l’equipaggio vigile e al lavoro, la situazione era diversa. Ogni volta che venivano rianimati per svolgere un compito di manutenzione, controllo, ricarica o qualsiasi altra mansione necessaria al corretto funzionamento della nave, dovevano avere spazio sufficiente per operare in modo agevole e rilassarsi in privato. In caso contrario – a prescindere dagli splendori del cosmo –, trovandosi a decine, forse centinaia di anni luce dalla più vicina atmosfera respirabile, dallo scorrere di un ruscello, da uno scroscio di pioggia, persino l’astronauta più addestrato avrebbe perso la ragione.
Per questo motivo la cabina di Daniels, come quella dei suoi colleghi, era stata progettata per occupare il massimo spazio concesso dai limiti strutturali ed economici della nave. Entro quei parametri, era dotata di ogni confort. Il letto era addossato a una parete, sotto un oblò esagonale che mostrava una visione multipla del cosmo all’esterno, e la luce sulla testiera era regolabile: più intensa per leggere, soffusa o colorata nel caso di altre attività.
Ma il panorama spettacolare, le luci regolabili, il letto soffice non servivano più a niente. Perché, come tutte le cabine dell’equipaggio a bordo della Covenant, anche quella di Daniels era pensata per soddisfare le esigenze di una coppia. E così, invece di confortarla, quel lusso non faceva che rendere più acuta la sua solitudine. Il suo futuro e il suo matrimonio erano stati troncati nel modo più brusco, inaspettato e violento possibile.
Piangi le tue lacrime, le aveva detto Oram, come se bastasse uno sfogo fisico per placare il dolore. Non fosse stata ancora intontita dal trauma, l’avrebbe preso a schiaffi. Forse nemmeno in quel caso l’avrebbe fatto: era troppo ben addestrata per cedere alle reazioni istintive. E forse anche per piangere, ammesso di voler seguire il suo consiglio. A bordo di una nave spaziale, l’emotività era sempre un rischio.
Daniels sapeva che non avrebbe dovuto prendersela con Oram per quel goffo tentativo di consolazione. Almeno riconoscigli il merito di averci provato. Più che un’autentica attitudine al comando, il nuovo capitano aveva l’efficienza di un drone, ma in fondo non era stato lui a cercarsi l’incarico. Come ogni membro dell’equipaggio, aveva una competenza altamente specializzata per il suo settore, e adesso gli organismi con cui era costretto a interagire erano ben più attivi e ostinati degli amati campioni biologici con cui aveva avuto a che fare durante la sua mansione di capo biologo.
Daniels si concesse un fugace sorriso, poi si disse che col tempo le cose sarebbero migliorate. Oram avrebbe potuto contare su Karine, sempre pronta a offrirgli con discrezione un consiglio e un aggiustamento di rotta.
Indifferente alle stelle che punteggiavano lo spazio fuori dall’oblò, sedette sul letto matrimoniale. Era un letto vero, e la sua massa rassicurante era resa possibile dal prodigio della gravità artificiale. L’equipaggio della Covenant non era costretto a sforzarsi di prendere sonno svolazzando a mezz’aria dentro un’amaca. Tuttavia non le dava alcun conforto, e non riuscì nemmeno a spostarsi dal bordo verso il centro del materasso, che ora le sembrava un deserto incolmabile.
Si guardò intorno, cercando di assumere uno sguardo distaccato per fare l’inventario della cabina.
Gli anfibi erano allineati e gli abiti, appesi nell’armadio aperto, restavano nell’ordine di sempre: quelli del marito a sinistra, i suoi a destra. Sullo scaffale giacevano la preziosa raccolta di vinili antidiluviani di Jacob e lo stereo d’antiquariato che avevano restaurato con tanta cura, raccogliendo negli anni questo e quel pezzo di ricambio.
Dalla sua posizione Daniels vedeva anche le attrezzature da arrampicata che lei e Jacob avevano portato nella speranza di dedicarsi a una vecchia passione in un nuovo mondo. Nessuno dei due sarebbe stato felice di vivere in un pianeta privo di montagne.
«Non m’importa il clima, la geologia o qualsiasi altra cosa», aveva ripetuto Jacob in più occasioni. «Qualunque sarà il luogo di insediamento della colonia, mi interessa solo che ci siano pareti da scalare.»
«E se il pianeta fosse sommerso dalle acque?» rispondeva lei, in tono scherzoso. «O talmente antico che le montagne sono state erose fino a ridursi a una distesa piatta come le Grandi Pianure del Midwest?»
«Nel primo caso, costruirò io stesso pareti di sale e carbonato di calcio. Nel secondo, userò terriccio e silicio.»
Era stato un inguaribile ottimista, sempre capace di vedere il bicchiere mezzo pieno. Le qualità ideali per un capitano… e per un compagno di vita. Lo sguardo le cadde sulla copia cartacea del progetto preferito di Jacob.
La capanna in stile «pioniere».
Il sogno di suo marito.
Ex marito, si corresse, in silenzio. Morto. Svanito…
Fu interrotta dalla suoneria invadente della porta.
«Chi sarà mai a quest’ora di notte?» avrebbe scherzato Jacob. Nello spazio interstellare, la notte era eterna. Ma Daniels non ne aveva mai vissuta una tanto oscura.
Si alzò e andò ad aprire. Era Walter, reggeva un piccolo contenitore.
«Buonasera. Disturbo?»
Gentile, educato, sollecito. Peccato che non fosse diventato lui il capitano. Ma questo era impossibile. Per quanto fossero avanzati i loro programmi, gli androidi erano progettati per obbedire: erano esecutori, non leader. In nessun caso potevano comandare.
Daniels fu tentata di mandarlo via, poi decise che persino la compagnia di un robot era preferibile a quella dei propri pensieri.
«Nessun disturbo. Accomodati, sono contenta di vederti.»
Lui avanzò di un passo, attese che la porta scorrevole si richiudesse alle sue spalle, poi le tese il contenitore. «Questo è per te.»
Daniels aprì la scatola. Conteneva tre perfetti 4C: cilindri di consumo chimico combustibile. O spinelli, secondo la terminologia di un’altra epoca ma per qualche motivo ancora corrente. Daniels non riuscì a trattenere un sorriso.
Senza traccia di ironia, Walter spiegò: «Le condizioni atmosferiche nella Sezione idroponica sono ideali per la coltivazione della cannabis».
«Potrei ingerire lo stesso principio attivo con una pasticca.»
«Vero, ma a mio avviso in questo tipo di assunzione c’è un elemento estetico che potenzia l’esperienza e, di conseguenza, l’efficacia. Il rituale stesso favorisce la concentrazione. È un vantaggio secondario, ma non irrilevante rispetto alla somministrazione orale.»
«Tu pensi sempre a tutto.»
«Sono progettato per questo.»
Il programma comprendeva anche la modestia. «Non è vero.»
«Se posso…» riprese lui. Poi fece una pausa, esattamente l’intervallo giusto per consentirle di accordargli il permesso. Daniels sapeva che anche quell’esitazione era un risultato della programmazione, ma la apprezzò comunque. «Mi pare di capire», proseguì Walter, «che conservarsi attivi sia un metodo efficace per agevolare l’elaborazione di un trauma. Ti sarebbe utile tornare al lavoro?»
«Oram mi ha sospesa.» Fece una smorfia. «Ordini del capitano… Secondo lui dovrei frignare invece che lavorare.»
«Non stavo suggerendo di informarlo. La nave è grande e c’è molto da fare in settori dove gli scanner si attivano a intervalli piuttosto irregolari.»
Lei restava dubbiosa. «Le videocamere di sicurezza mi riprenderebbero comunque.»
«Dipende da dove lavori. La loro copertura è ampia, non totale. Senza contare che i monitor sono visionati dal personale di sicurezza: dubito che al sergente Lopé possa interessare dove trascorri il tuo tempo libero. E quanto al capitano, al momento ha altro cui pensare. Se non sbaglio, sul ponte avevi espresso l’intenzione di verificare le condizioni dei macchinari pesanti nel deposito di terraformazione. Considerati i danni che abbiamo riportato, sono convinto anch’io che quell’area abbia bisogno di un’ispezione più attenta e diretta. Io mi ero offerto di accompagnarti e ti rinnovo l’offerta.»
Lei gli rivolse uno sguardo colmo di gratitudine.


16

Tese una mano per sfiorargli la guancia. La pelle dell’androide, a base di collagene, al tatto sembrava perfettamente naturale. Dotato di sistemi in grado di analizzare le espressioni, il timbro e i comportamenti umani in modo istantaneo, Walter aveva colto il significato affettuoso di quel gesto, ma ne provò una sorta di imbarazzo. Era programmato per gestire quasi ogni sorta di situazione, ma non aveva idea di come reagire a un momento di autentica intimità.
In silenzio, si ritrasse.
Notando il suo imbarazzo, lei abbassò la mano. «Scusami. Non volevo disorientarti.»
«Non sono disorientato», rispose lui. «Incerto, forse, non disorientato. A volte una non-reazione è la reazione più sensata.»
Sorrise, era sempre un buon modo per disinnescare i conflitti. «Dovresti dormire un po’.»
Lei rise. Una risata secca, brusca. «Dubito di riuscirci. Mi riposerò quando torneremo sulla Covenant.»
Restarono seduti a conversare di niente, entrambi in allerta per cogliere le voci o almeno l’eco degli altri. Il silenzio intorno a loro persisteva, e a Walter tornò in mente il suo flauto.
Ricordando la musica straordinaria creata insieme a David, si sforzò di riprodurne qualche nota. Il suono era dolce, ma la melodia incompiuta, esitante. Vergognandosi della propria incapacità, lui si interruppe.
Sorpresa da quel talento imprevisto e insospettato, Daniels gli rivolse uno sguardo incuriosito. «Ehi, non era male.»
«Pessimo.» Walter scrutò disgustato lo strumento. «Non era nemmeno un pezzo originale.»
«Invece sei bravo», insistette lei. «Una melodia, per essere bella, non ha bisogno di essere anche originale, altrimenti non esisterebbero incisioni, ma solo improvvisazioni.» Indicò il flauto. «Continua.»
Lui non ne era convinto. «Non riesco a riprodurre in modo accurato ciò che vorrei. Il problema non è la memoria.» Cercò di spiegarsi. «Manca qualcos’altro.»
«Prova a comporre qualcosa di tuo», lo incitò lei.
Lui si irrigidì. «Il mio programma non contempla capacità creative.»
«Può darsi», rispose lei. «Però comprende la capacità di apprendere. La procedura è la stessa: prova ed errore. Conservi quello che funziona ed elimini il resto. Puoi… sperimentare. Se serve, fai finta che io non sia presente: non sono qui per giudicarti.»
«Non posso fingere che tu non ci sia quando mi siedi davanti.» Sorrise di nuovo. «Anche questo richiederebbe una creatività che non ho.»
Lei sospirò. «Allora prova di nuovo e non preoccuparti della mia reazione.»
Cedendo a quell’incoraggiamento, l’androide ritentò. Prima esitando, poi con una sicurezza via via crescente. Una breve serie di note risuonò nella vastità della sala. La sequenza era gradevole. Sbalordito da quel piccolo trionfo, Walter perseverò. Questa volta le note formarono una melodia. Una melodia mai sentita prima, né durante il suo incontro con David né sulla nave o da qualsiasi altra parte. Una musica nuova.
Sua.
Incoraggiato, proseguì. Lui stesso non l’avrebbe riconosciuta come tale, ma la melodia delicata compose una ninnananna quasi ipnotica. Mentre la ascoltava, Daniels si sentì sopraffare dalla stanchezza e le sue palpebre cominciarono a chiudersi. La testa si abbassò sul petto, si sollevò e ricadde di nuovo. Un istante dopo, ancora seduta, si era addormentata.
Walter continuò a suonare, con gli occhi fissi su di lei mentre le sue dita ormai danzavano sul flauto. Suonava e sperimentava. Un solo strumento non poteva bastare a riempire la sala di musica, ma lui ci provò con tutto se stesso.

L.

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