[2004-07] AVP: Alien vs Predator (Novelization)

L’uscita del 13 agosto 2004 del film AVP: Alien vs Predator di Paul W.S. Anderson viene accompagnata dalla consueta novelization, targata Harper Entertainment (della newyorkese HarperCollins) e firmata dal romanziere Marc Cerasini, che ha scritto di tutto nel campo del fantastico ma è noto in Italia per due romanzi targati “Segretissimo Presenta” ed ispirati all’universo televisivo di 24.

Al contrario delle pessime novelization di Alan Dean Foster e S.D. Perry, Cerasini non si limita a raccontare quello che succede in video ma prende l’iniziativa e aggiunge particolari, aggiunge situazioni e soprattutto fa quello che spesso i novellizzatori non fanno: scrive, non limitandosi a descrivere.

Per farvi apprezzare il libro – ovviamente inedito in Italia – vi traduco alcuni capitoli, con due scene tagliate dal film, la vestizione dei Predator e l’epilogo… un po’ differente da quello visto al cinema!


Indice:


La trama:

Una misteriosa struttura viene localizzata da un satellite sotto i ghiacci antartici. Una squadra di scienziati, scavatori, archeologi ed avventurieri, organizzata da un industriale milionario, parte per le terre antartiche per cambiare la storia, esplorando ciò che viene ritenuto essere una piramide perfettamente preservata, costruita depredando quelli che hanno costruito le piramidi egizie e messicane. Una volta che la squadra entra, però, non ci sarà più via d’uscita, né speranza per la razza umana. Perché nelle profondità del labirinto il terrore comincia a vibrare: una mostruosità aliena ancora più feroce, abile, crudele ed inarrestabile di qualsiasi altra specie dell’universo. Eccetto una: i Predator, che hanno portato questo incubo sulla Terra ed ora stanno tornando per affrontare la bestia una volta ancora, nel più terribile dei combattimenti.


Prologo (tagliato dal film):

Cambogia del nord, 2000 a.C.

Le prime luci dell’alba penetrarono attraverso il baldacchino di corde intrecciate. Gli uccelli presero il volo gracchiando un loro saluto al nuovo giorno, mentre le loro ali scarlatte coloravano il cielo pallido passando davanti ai grigi lastroni di pietra di una grane piramide. Nelle vicinanze, l’aria vibrava del rumore incessante di un fiume che scorreva e si andava a gettare da un dirupo per infrangersi sulle rocce più sotto. Ai piedi della giungla, dove la densa vegetazione ovattava il ruggito della cascata, un grugno umido fendeva liane e rami. Il maiale selvaggio odorava in giro poi con soddisfazione penetrava nel sottobosco e fuoriusciva in una radura.
Agitando la corta coda, il maiale trotterellava sul muschio nelle vicinanze di alberi antichi, annusando l’umido e fetido terreno. Alla base di un gigantesco tronco il suo corpo si immobilizzò. Iniziò a tremare dall’eccitazione e le sue zampe anteriori iniziarono a scavare nella soffice terra scura, disseppellendo pezzi di fungo e un grumo di vermi pulsanti. Poi l’animale cominciò a divorare la sua preda.
Dietro al maiale che grufolava, le foglie si mossero di nuovo, questa volta senza alcun suono. Un paio di occhi marrone scuro fissava il maiale selvatico di nascosto. Funan il cacciatore sollevò il suo volto dipinto al cielo. Come aveva fatto il maiale prima di lui, annusò l’aria ed ascoltò.
Delle scimmie rumoreggiavano in alto e un uccello gridava, ma non per allarme. Sui rami bassi scimmie saltellavano facendo cadere per terra foglie e gocce di pioggia. Nella fredda terra umida gli insetti strisciavano, contorcendosi tra le evanescenti dita della nebbia.
Funan sorrise. Lui e i suoi compagni di caccia avevano pazientemente seguito la preda: il tempo di uccidere si stava avvicinando. Ma non ancora. Solo quando Funan fu soddisfatto di tutte le condizioni avrebbe lanciato il segnale ai suoi uomini con la sua mano abbronzata.
Sbucando come ombre dal sottobosco, i fratelli gemelli Fan Shih e Poi Shih si mossero da entrambi i lati di Funan. Come il loro capo, stringevano lance di legno con punte d’ossidiana scheggiata. Mimetizzate per la caccia, le loro facce e i loro petti erano scuriti dalla cenere e fregiati con fango marrone e verde. Foglie di vite stringevano le loro braccia e le loro gambe, e circondavano le loro teste. Cingevano i loro fianchi delle pelli che mostravano i trofei delle precedenti imprese venatorie, insieme ad ossa, collane di denti e zanne a sciabola appartenenti ad una dozzina di specie. Appesi ai loro colli c’erano pendagli di varia natura, oggetti magici per assicurarsi una caccia proficua.
Quando la brezza lo raggiunse, Funan strofinò un’osso secco di scimmia che pendeva dalla sua gola ed annusò di nuovo l’aria. Poteva sentire il maiale, la vegetazione e il fiume in lontananza, ma nient’altro. La tensione attraversava i suoi nervi, ed anche i suoi uomini sembravano giunti al limite. Non avevano mai cacciato nelle vicinanze del sacro tempio: sebbene la giungla intorno alla piramide di roccia brulicava di fauna selvatica, i cacciatori avevano sempre evitato quel posto proibito. Solamente durante il tempo del sacrificio, quando le tribù locali offrivano giovani uomini e giovani donne, le persone entravano in questi territori.
Funan sapeva che era avventato a cacciare vicino ad un sito così sacro. Quella caccia doveva interrompersi lì, ma decise altrimenti, lanciando il segnale all’ultimo membro del suo gruppo.
Un uomo gigante chiamato Jawa si mosse in avanti con la schiena piegata, accucciandosi dietro un cespuglio. Stringeva una lunga lancia che però sembrava minuscola tra le sue immense mani. Come gli altri, anche Jawa si era mimetizzato con fango e vegetazione, con un dente d’orso e un osso di gatto selvatico che gli pendevano dal collo. Il suo possente torace mostrava ancora le cicatrici lasciate dal violento combattimento con il gatto.
Non visto dal piede di Jawa, un’altra caccia era giunta a conclusione: una lucertola grigio-verde ed un coleottero nero si ritrovarono stretti in un abbraccio mortale nel terreno, sconosciuti al gigante la cui ombra li aveva schiacciati. Quando Funan fece un segnale con la mano destra, Jawa uscì dal suo nascondiglio, schiacciando di nuovo tanto la lucertola che il coleottero con il suo piede calloso.
Scivolando attraverso il cespuglio, Jawa raggiunse la sua posizione, di fianco al maiale. Ridacchiò, imitando il verso dell’uccello rosso e verde che abitava quelle regioni. Dai loro nascondigli, Funan e i due fratelli Shih si alzarono, con la nebbia che avvolse le loro gambe.
Funan avanzò e presto sarebbe stato abbastanza vicino per sferrare un colpo mortale – o per riuscire ad evitare le terribili zanne dell’animale. I suoi muscoli tremarono dalla tensione insieme al suo cuore, poi all’improvviso così come era arrivata la tensione si sciolse e lasciò il posto alla fredda determinazione.
Sollevando la sua lancia, Funan stava per prendere la mira quando qualcosa andò storto. Il grugno del maiale, sporco dal grufolare, si alzò di scatto ad annusare l’aria. Con le orecchie tremolanti, l’animale sbuffò nervosamente. Funan non osò respirare. Dietro di lui, Fan e Poi Shih si fermarono immediatamente. Mentre una mosca ronzava intorno alla sua testa, Funan ritrasse la sua arma. Ma prima che potesse fare altro, il maiale spaventato si chinò sotto un tronco, poi scomparve in un cespuglio. L’eco della ritirata dell’animale durò un istante poi tutto fu silenzio di nuovo.
Funan guardò Jawa con smarrimento. Avevano fatto tutto bene, eppure in qualche modo avevano spaventato la loro preda. Dietro di loro, Fan e Poi abbassarono le armi, perplessi.
Poi, improvvisamente, ogni suono della giungla cessò. Ogni uccello, ogni insetto sembrò zittirsi. La fitta vegetazione era penetrata solo dai rumori della cascata distante. Nella quiete, Funan si guardò in giro con circospezione, ma non vide nulla. Fan e Poi Shih alzarono le loro armi di nuovo, pronti ad attaccare. Ma attaccare cosa? Con un rumoroso crack, una frusta nera schizzò fuori da un cespuglio ed afferrò le gambe di Shih. Senza neanche un lamento, il cacciatore fu trascinato nella vegetazione, lasciando come unica traccia del suo violento passaggio delle foglie tremolanti.
Poi Shih alzò la sua lancia, pronto a vendicare il fratello. Ma all’improvviso la lancia fu strappata dalle mani dell’uomo. Scalciando disperato, fu trascinato anch’egli nel cespuglio. Solo dopo che Poi fu scomparso dalla vista arrivò l’urlo – una, due, tre volte, l’ultimo in pratica un grido di agonia, che spezzò il coraggio degli altri. Jawa scappò nel sottobosco, seguito un attimo dopo da Funan. Come il maiale prima di lui, Jawa fuggiva alla cieca tra gli altri, ignorando ogni sentiero. I rami gli ostacolavano le braccia e solo il terrore lo guidava.
Rimasto senza fiato, Jawa finì in una radura circondata dagli alberi. Si appoggiò ad un albero per riprendere fiato si mise ad ascoltare ogni suono. Sentì, dietro di lui, la corsa di Funan attraverso al giungla ma nient’altro.
L’ombra nera e senza forma scaturì dall’albero senza alcun suono. Atterrando sulle gambe, la grande bestia a forma di insetto si mostrò a Jawa. Un grido strozzato uscì dalla gola del guerriero mentre faceva un passo indietro. L’ultima immagine che Jawa colse furono grandi zanne lucenti, bava calda e sangue rosso.
Qualche attimo dopo Funan arrivò nella stessa radura, in tempo per vedere Jawa trascinato fra gli alberi. Una pioggia rossa aveva inondato la zona e alcune gocce calde colarono su Funan. Il capo dei cacciatori, con ancora la lancia stretta in pugno, cercò in giro delle tracce di Jawa, ma l’uomo era ormai andato.
Lancia in pugno, Funan scandagliò le vicinanze. Si trovava in un luogo antico, dalla fitta vegetazione e dagli alberi dalla corteccia nera lucida. Funan trattenne il suo fiato grosso per il terrore così da ascoltare eventuali suoni del nemico in avvicinamento. Solo allora udì un suono dietro di lui: si girò di scatto, brandendo la lancia.
Con terrore crescente, Funan fissò la corteccia scura iniziare a muoversi, separandosi dai tronchi. Con un rumore carnoso la massa oscura tirò fuori degli arti. Poi emerse una testa oblunga, ricoperta da pelle oleosa e traslucida. Una coda ossea segmentata calò da un grande ramo, e con un tonfo quella oscenità che si contorceva raggiunse il suolo.
La creatura, snudando i suoi denti a sciabola, si alzò in tutta la sua possente altezza e si avvicinò al cacciatore raggomitolato. Le fauci stridenti fecero fuoriuscire una lunga protuberanza innervata con un’altra bocca scattante e sbavante.
Dimenticando l’arma, Funan tentò la fuga, ma il panico lo faceva incespicare nel fitto fogliame, cadendo pesantemente e facendo volar via lalancia. Poi il più valoroso cacciatore della tribù si raggomitolò ed attese che la morte lo raggiungesse. Questa, ne era convinto, era la sua punizione per aver messo piede sul sacro suolo che circonda il tempio degli dèi.
Una goccia calda cadde sulla sua guancia e bruciò la sua belle. Le fauci tremolanti scattarono nelle vicinanze ed un’ombra oscura, nera come la morte stessa, incombeva sopra di lui, pronta ad attaccare, quando accadde un evento incredibile.
Un altro abominio emerse dalla giungla.
Dapprima Funan vide la creatura come sfocata, come se la vegetazione si fondesse con essa al suo passaggio. In un lampo accecante, la figura traslucida lanciò qualcosa e colpì il mostro vicino alla gola di Funan, facendo penetrare il suo proiettile blindato nella corazza dell’essere.
L’esoscheletro del mostro gorgogliò nel toccare il suolo e Funan vide che le placche rinforzate della gola della creatura erano state distrutte. Spruzzi di sangue acido e verde schizzarono dalle ferite del mostro nero, bruciando la vegetazione davanti a sé, emettendo fumo. Le gocce calde raggiunsero anche Funan, facendolo rotolare sul terreno gridando dal dolore.
Il fantasma si fermò davanti al cacciatore, e mentre Funan si toglieva le mani dal volto per guardare in su, l’ombra indistinta si trasformò in una cosa solida – un incubo che sembrava mezzo umano e mezzo rettile. E mezzo demone. Il fantasma stava su due piedi, il suo torso era squamoso e la sua testa coperta da una maschera metallica. Occhi violenti si affacciavano da quella maschera – occhi che Funan cercava disperatamente di evitare.
Poi il fantasma si avvicinò all’uomo, muovendosi con grandi passi verso il mostro nero che ancora tremolava sul terreno.
Funan guardò il fantasma distendere le sue enormi braccia e, con un improvviso click, coltelli a tre lame fuoriuscirono dagli apparecchi fissati ai suoi polsi. La luce del sole brillava su quelle lame. Il fantasma grugnì di soddisfazione e guardò in basso, di nuovo verso Funan.
L’uomo si coprì gli occhi e pregò tutti i suoi antenati. Chiese pietà ad una dozzina di dèi tribali, piccoli e grandi. E con estrema sorpresa di Funan, uno di quegli dèi rispose alle sue preghiere.
Scuotendo la testa in segno di pietà, come se quell’uomo non fosse degno del tempo di ucciderlo, il Predator si voltò ancora alla volta della sua vera preda.
Il mostro rantolante, con i collo ferito che ancora sputava il suo sangue verde acido, voltò le spalle ad un albero. Con la coda tremante e gli artigli estesi, il mostro si preparava alla battaglia finale.
Chinandosi sulle gambe potenti, il Predator alzò la testa emettendo un grido selvaggio che scosse la giungla. Funan vide una luce dilaniare l’esoscheletro chitinoso del mostro. Poi arrivò il suono del sangue verde fosforescente che esplodeva in giro.
Mentre la giungla fumava e sfrigolava intorno a lui, Funan guardava allibito mentre le due creature primordiali, la cui origine extraterrestre era al di là della comprensione, combatterono selvaggiamente fino alla morte.

Capitolo 1 (tagliato dal film):

Bouvetoya Whaling Station,
Antartica, 1904

La nave Emma aveva navigato per le sponde dell’Isola Bouvet, all’inizio della stagione della caccia alla balena del 1904, a pieno regime: con marinai, arpionatori, scialuppe ed equipaggiamento per lavorare l’olio estratto dalle balene macellate per almeno un anno, prima di tornare in Norvegia l’anno successivo. Il nuovo skipper della Emma, nonché suo co-proprietario, Sven Nyberg, intendeva compiere il suo primo ed ultimo viaggio come baleniere in modo proficuo. Suo fratello, Bjom, era stato il capitano della Emma per diciannove stagioni, ma Bjom era morto per una febbre durante l’ultimo viaggio di ritorno, il che aveva costretto suo fratello a prendere il comando dell’ultimo viaggio commerciale della Nyberg Brothers Oil Company di Oslo. al suo ritorno in Norvegia, Sven era intenzionato a vedere l’attività di famiglia al miglior acquirente.
L’alba di questo nuovo secolo stava portando alla fine la tradizionale caccia alla balena. Il magnate Christian Christensen aveva aperto una moderna struttura di lavorazione a Grytviken che alla fine veniva usata da piccole imprese come la Nyberg, gente che seguiva le tradizioni del proprio Paese sin dai tempi dei Vichinghi. Come la caccia alla foca, che aveva decretato la fortuna di molte famiglie, negli ultimi decenni dell’Ottocento, la caccia alla balena era diventata un affare non più fruttuoso. L’assottigliamento dei branchi e la concorrenza coi balenieri britannici e scozzesi – e recentemente anche giapponesi – insieme alle grandi corporazioni come la Christensen aveva gradualmente chiuso l’èra della caccia alla balena indipendente ed auto-sufficiente.
Lo stesso Sven Nyberg voleva provare a prolungare l’attività della piccola impresa Nyberg Brothers. Era l’unico modo per assicurare il sostentamento alla propria famiglia. Per questo Sven aveva offerto una posizione di prestigio a Karl Johanssen, il più esperto baleniere di Oslo, con un aggiuntivo 5% degli incassi della spedizione. Se fosse stato un successo, il viaggio della Emma al Polo Sud avrebbe reso Karl un uomo molto ricco.
L’offerta non poteva arrivare in un momento più opportuno per Karl Johanssen. Baleniere sin dall’età di dodici anni, Johanssen aveva sopportato 27 stagioni sul ghiaccio ed era sopravvissuto con tutti i suoi arti, dita ed unghie intatte – non un risultato da poco quando le temperature crollano a 50 gradi sotto lo zero. Dai viaggi passati con il fratello Bjom, Johanssen aveva buoni rapporti con la stazione di lavorazione della Nyberg all’Isola Bouvet, una delle località più remote del mondo.
Alcuni anni prima, nel 1897, Karl Johanssen aveva pensato di abbandonare il mare del tutto. Attirato in California del nord dalle promesse di benessere di suo fratello, Karl aveva sperperato i suoi magri risparmi cercando di diventare ricco nella corsa all’oro in Alaska. Costretto a tornare alla caccia alla balena per esigenze finanziarie, era pronto a firmare per prestare servizio su una delle navi di Christensen anche per la metà di un 1%, quando invece ricevette la proposta di Nyberg. Il posto di rilievo con addirittura un 5% di compenso era la seconda possibilità per Karl di potersi ritirare.
Naturalmente Karl aveva lavorato duro per quei soldi. Sven Nyberg invece era un marinaio indifferente, non avrebbe mai speso una singola stagione tra i ghiacci dell’Antartide. Per fortuna, durante i loro lunghi dodici mesi di duro lavoro Sven era stato abbastanza saggio da confidare nel giudizio di Karl in ogni situazione. Sotto la tutela del fiocinatore, il giovane fratello Nyberg aveva imparato segreti della caccia alla balena che avrebbe impiegato anni a scoprire per proprio conto. Il risultato, dopo un anno, fu una caccia incredibilmente fruttuosa, con la Emma che riportava trecento carcasse all’Isola Bouvet. Lì sarebbero state lavorate a dovere.
Fu durante il processo di lavorazione, quando gli uomini erano fuori per lunghi periodi di tempo lavorando alla struttura che dominava il porto, che i balenieri iniziarono a vedere strane luci nel cielo, e non le solite che erano abituati a guardare.
Sul Lykke Peak e sul più alto Olav Peak, che facevano ombra sulla struttura di lavorazione, era come se dei cannoni sparassero contro il cielo, e le esplosioni sul ghiaccio potevano essere udite a distanza. Poi uno strano bagliore rosso apparve all’orizzonte, illuminando l’incessante crepuscolo con la lucentezza di migliaia di fuochi. La luce danzò rossa sul ghiaccio, tingendo di un colore livido le migliaia di ossa di balena che giacevano sulla spiaggia. Spesso – ma non sempre – le luci misteriose erano accompagnate da tremori nel profondo della terra sotto i loro piedi.
Mentre l’attività vulcanica dell’isola non era inusuale – a volte nel 1986 parte dell’isola era stata distrutta da un’eruzione vulcanica – quei fenomeni spaventarono i balenieri, che si trovavano bloccati sull’Isola di Bouvet fino alla primavera successiva, qualsiasi cosa fosse accaduta. Così dopo qualche giorno di questi strani eventi, nel tentativo di sedare le paure dei balenieri e scoprire le cause di quegli strani effetti di luce, Karl guidò un gruppo di marinai lontano dal porto sul ghiaccio che ricopriva l’isola di cinquanta miglia quadrate.
Su un vasto terreno ghiacciato scoprirono un grande oggetto metallico dall’aspetto particolare, come se un gigante avesse costruito una bara. L’oggetto era incastonato nel ghiaccio al centro di un largo cratere. La sua superficie ferrosa era liscia, con nessuna giuntura visibile o apertura di sorta. C’erano contrassegni incisi sul metallo – strani simboli che nessuno dei balenieri aveva mai visto. Sebbene la bara di metallo sembrasse vuota, nessuno riuscì a pensare ad un modo per aprirla o ad immaginare cosa ci fosse all’interno.
Karl Johanssen pensò fosse meglio lasciare le cose come stavano, ma in questa situazione lo skipper lo scavalcò. Il capitano Nyberg era desideroso di trovare un altro modo per rendere proficuo il viaggio, così ordinò ai marinai di caricare l’oggetto su una slitta ed usare una muta di cani per trascinarlo al campo base. Ci vollero cinque uomini e quindici cani per un giorno intero per adempiere agli ordini del capitano, ma quando ebbero finito la bara di metallo scintillante fu stoccata nel magazzino, insieme alle taniche di olio di balena in attesa di essere caricata sulla nave. Nel giro di poche settimane le temperature miti avrebbero permesso alla Emma di abbandonare la prigione di ghiaccio della baia. Così l’equipaggio sarebbe potuto ritornare in Norvegia e raccogliere il frutto di dodici lunghi mesi di lavoro.
Ma ore dopo che l’oggetto fu portato al campo, Karl fu scosso dal suo sonno leggero dal suono di grida. Infilandosi di corsa gli stivali ma lasciando il cappotto, Karl si precipitò verso il magazzino. Le porte era socchiuse, ed una di loro era stata scardinata. Al centro della stanza Karl trovò quattro uomini morti – più che morti, erano stati squarciati, e le loro teste separate dalle spine dorsali e rimosse. Peggio ancora, lo strano oggetto a forma di bara era spalancato e vuoto, e dentro il ventoso magazzino, mescolato con l’odore di sangue fresco, si respirava fetore umido e animalesco.
Giusto fuori dal magazzino Karl scoprì enormi impronte insanguinate che si allontanavano. Le traccie scarlatte formavano un percorso che si dirigeva al dormitorio dei marinai. Lì, davanti alla porta, vide un alone muoversi nell’aria gelata. Prima che potesse gridare un avvertimento, Karl vide una specie di forza invisibile sradicare la porta e fiondarsi nel dormitorio. Udì grida di sorpresa e di panico – poi di paura e di dolore – dall’interno dell’edificio. Ci fu un singolo sparo, poi una mano umana recisa volò fuori dalla porta, ancora stringendo una piccola pistola.
Alla fine Karl vide un marinaio sfrecciare fuori dall’edificio, con la camicia da notte insanguinata e una maschera di terrore sul volto. Gli occhi dell’uomo incontrarono quelli di Karl per un solo secondo prima che una lama argentata gli fuoriuscisse dalla gola.
Preso dal panico Karl corse verso il magazzino e cercò un’arma – qualsiasi cosa per difendersi. Non avendone trovate, cercò allora una via di fuga. Karl sapeva che era morte certa esporsi agli elementi atmosferici senza protezioni, ma quando provò a prendere un cappotto da uno dei morti li trovò completamente bagnati di sangue – sangue che si era congelato all’istante.

Karl si avvolse in un telone e corse fuori dalla porta secondaria, lanciandosi su una pendenza che portava sulla spiaggia piena di ossa di balena. Lì, fra gli scheletri, sperava di trovare riparo sufficiente per proteggersi finché qualsiasi cosa uscita da quella bara non fosse tornata nell’inferno da cui proveniva.

Un tremolio del ghiaccio svegliò Karl Johanssen da un sonno senza sogni. Con il crepuscolo perpetuo non riusciva a capire per quanto tempo fosse rimasto incosciente. Ma la tela che lo ricopriva era ricoperta di ghiaccio e i suoi arti rifiutavano di rispondere ai suoi comandi. Peggio ancora, Karl non riusciva nemmeno a sentire il freddo che lo aveva avvolto mentre era privo di conoscenza. Al suo posto provava come un caldo abbraccio – un segno chiaro che stava morendo assiderato. Raccolse ogni briciolo di forza di volontà e riuscì ad alzarsi. Senza un cappotto adeguato, un telone non bastava a fermare la perdita di calore corporeo. Un fuoco avrebbe potuto salvarlo ma non si azzardava a rischiare di attirare l’attenzione del demone invisibile che aveva massacrato il campo. E comunque, non aveva nulla per accendere un fuoco.
Karl sapeva per esperienza che se non avesse trovato calore in meno di un’ora sarebbe morto. Non avrebbe mai potuto attraversare la baia congelata fino alla nave in quel lasso di tempo. Il che significava che doveva tornare al campo e sperare che la cosa che aveva ucciso il suo equipaggio se ne fosse andata.
Con i piedi di piombo attraversò la spiaggia delle ossa. Frammenti di ossa di balena facevano rumore ad ogni suo passo, e finalmente raggiunse il sentiero che portava al campo. Con le braccia ormai blu e le dita nera e gonfie, Karl si trascinò fuori dal cimitero delle ossa. Rantolò nella neve, alzandosi solo quando raggiunse gli edifici del campo.
Si avvicinò con cautela alla serra, dove sperava di trovare cibo e calore, scoprendo una carneficina. Per primo notò che le finestre erano rotte, poi che tutte le piante all’interno erano congelate. Poi vide impronte insanguinate sui vetri. Alla fine vide il corpo semi-congelato di un baleniere. L’uomo giaceva sul pavimento al centro della serra. Come i corpi che Karl aveva visto nel magazzino, anche questo aveva la testa e la spina dorsale estratti.
Voltandosi, Karl si infilò in un vicolo stretto fra due strutture. Alla fine del passaggio inciampò su una slitta e cadde in terra: si ritrovò addosso il muso furente dai denti digrignati. La corda si tese proprio un attimo prima che il cane impazzito gli afferrasse la gola. Gli occhi neri erano pieni di panico, il cane ululava e tirava il suo guinzaglio.
Karl si mise in piedi e si precipitò verso un edificio. La sua spalla sbatté sulla porta e questa si spalancò con fragore. Dentro il camino era ancora acceso e le lampade ad olio erano ancora accese, con tanto di pentole a bollire sulla stufa di ghisa. Le lunghe tavolate erano pronte per il pasto ma tutto era immobile. Karl richiuse la porta e raggiunse un tavolo.
Era pronto a crollare su una delle sedie di legno quando udì un movimento dietro di lui. A Karl sembrò di vedere un’ombra scura attraversare la stanza. Strizzò gli occhi nell’oscurità.
Con un sibilo ringhioso qualcosa emerse. Karl vide delle fauci sbavanti ed una testa senza occhi e annaspò all’indietro, inciampando su una panca. Piagnucolando, vide l’incubo nero inseguirlo, con la lunga coda tremolante come quella di un gatto infuriato.

Karl continuò a strisciare, fissando la cosa nera. Alla fine la sua schiena sbatté contro qualcosa e, voltandosi, Karl scoprì di avere un altro demone alle spalle. Aveva una figura umana ma non era umano. La creatura era rivestita d’armatura dalla testa ai piedi, con la faccia coperta da una maschera metallica. Con un rapido rovescio, il mostro umanoide scacciò via l’umano: andando a cadere su una tavola, Karl sentì frantumarsi la sua gabbia toracica e le sue braccia intirizzite dal freddo. Rantolando dal dolore e dalla certezza della morte imminente, strisciò verso un angolo, dove poteva giacere dimenticato dai due orrori gemelli che iniziarono a farsi a pezzi l’un l’altro.


Capitolo 9: Vestizione dei Predator

Cinquecento miglia sopra l’Isola Bouvet

I Predator erano svegli, ora, ed attivi.
Nudi, la loro carne pallida e screziata ancora brillava dopo l’immersione nella vasca della melma primordiale. Cinque esseri potenti si pavoneggiavano sul ponte dell’astronave, con gli occhi scintillanti di intelligenza innata.
I monitor dei computer intorno a loro tremolavano di increspature rosse, verdi e violetto mentre l’energia pulsava attraverso la camera. La voce del cervello cibernetico – un sibilo costante come il suono di un serpente infuriato – salutava i suoi padroni con un profluvio di dati. Il ponte stesso era dominato da un’ampia vetrata che forniva una splendida vista sul pianeta Terra.
Stagliato contro la figura del pianeta blu e verde, una delle figure faceva scorrere un artiglio sul pannello di controllo cristallino. Con un breve rumore schioccante si aprì una sezione ermetica della parete rivelando delle lucenti armature, cinque maschere demoniache, una moltitudine di armi e uno schieramento di fucili a canne corte da montare su spalla.
Senza pronunciare parola le creature si prepararono per l’imminente battaglia.
Muovendosi con efficacia meccanica, i Predator indossarono i reticolati sopra le loro braccia pallide e muscolose e i loro petti possenti e montarono le armature a sezioni sui loro corpi. Seguirono gli stivali rinforzati e le protezioni pettorali. Poi un meccanismo ingombrante fu montato sugli avambracci di ogni creatura, al di sotto del gomito, e un dispositivo similare fu agganciato ai loro polsi destri.
Una delle creature testò il meccanismo. Con un semplice scatto del loro braccio muscoloso, una lunga lama telescopica incurvata fuoriusciva con un sibilo. Il fenomenale cacciatore esaminò il bordo levigato della lama, poi grugnì di soddisfazione.
Fu poi la volta di uno zaino in metallo increspato montato sulla spallina dell’armatura, con dei cavi di alimentazione per il suo cannone al plasma.
Poi fu il momento di indossare le maschere. Ognuna di esse era differente, e ricopriva completamente il volto di chi le indossasse – ad esclusione degli occhi infuocati e dei dreadlocks fluenti, raccolti con anelli di metallo.
Alla fine, un terminale fu montato sul polso sinistro di ogni Predator. Lo sfarfallio di un LED indicava l’attivazione e, con un improvviso sibilo, le giunture dell’armatura si fusero fino a diventare a chiusura ermetica. Aria calda e umida riempì l’interno dell’armatura, un’atmosfera che imitava quella del paese natale dei Predator.
Con l’armatura montata, i cacciatori raccolsero le loro armi – lunghe lance retrattili con punte zigrinate e lame curve a doppio taglio, dall’impugnatura d’avorio. Sui loro corpi scintillanti si assicurarono delle shuriken che, una volta lanciate, facevano fuoriuscire delle lame retrattili. Stranamente lasciarono i cannoni al plasma sulla loro rastrelliera, scegliendo solamente armi a bassa tecnologia, quasi primitive.
Solo una delle creature scelse un’arma ad alta tecnologia – un apparecchio lancia-rete montato su polso – anche se controbilanciò quella scelta con una lunga lama ricurva più basilare, abbellita da un manico d’osso resistente.
Una volta completata la preparazione alla caccia, i Predator entrarono in una piccola camera rituale e si inginocchiarono supplici davanti ad un mammoth, un’effige finemente lavorata in pietra rappresentante un fiero dio guerriero, una divinità che scagliava fulmini come una sorta di stupefacente Odino extraterrestre.

Mentre i Predator si prostravano davanti al loro dio selvaggio, un’immagine sfarfallò sui monitor del computer di bordo: era l’immagine in tempo reale di una parata di veicoli che si faceva strada attraverso una vasta distesa ghiacciata.


Capitolo 25: La storia dei Predator

Nella stanza dei geroglifici

«Voglio mostrarti qualcosa.»
Sebastian portò Lex davanti ad un pannello tra due cenotafi stilizzati, che si innalzava per più di quattro metri dal pavimento al soffitto di pietra. Indicò una particolare sezione dei geroglifici incisi sulla parete rocciosa.
«Qui è descritto una sorta di rituale umano…» iniziò. Sebastian indicò un pittogramma che ricordava fortemente la creatura che li aveva attaccati prima. «Questi esseri. Questi cacciatori. Sono stati mandati qui per provare di essere meritevoli di diventare adulti…
«Stai dicendo che sono… cosa, adolescenti?»
Sebastian scosse le spalle. «Chi sa quanto tempo vivono queste creature? Magari per migliaia di anni. Indipendentemente dalla loro età, questo è il loro rito di passaggio».
Le sue mani seguirono un pittogramma – una costellazione stilizzata con ciò che appariva come un rapace alato che si faceva largo nello spazio. «Ecco perché non portano armi da fuoco.»
«Fa parte del rituale», propose Lex.
«Esatto. Se le devono guadagnare, come un cavaliere che si guadagna i propri speroni.»
Sebastian sbatté il palmo della sua mano sulla dura roccia. «L’intera storia è qui. I glifi sono difficili da interpretare – non è proprio azteco ma neanche egiziano – ma sono perfettamente preservati. E con un po’ di fantasia posso riempire gli spazi vuoti…» Passò la mano su un pittogramma stilizzato. Nonostante l’iconografia primitiva, Lex riconobbe facilmente l’immagine: era la Terra, vista dallo spazio profondo. E sul pianeta aleggiava un disco di fuoco, senza dubbio un simbolo che rappresentava una nave spaziale che arrivava dallo spazio.
«Come ho detto prima», iniziò Sebastian, «gli aztechi usavano multipli di dieci. Questi simboli qui approssimano il simbolo azteco del dieci, così con un po’ di matematica…»
Sebastian si fermò, facendo i calcoli.
«Cinque mila anni fa trovarono un pianeta… la nostra Terra. Insegnarono agli umani primitivi la costruzione e furono venerati come dèi…»
Il suo dito si mosse verso il basso, verso una forma triangolare familiare, con un disco fiammeggiante sopra di essa. Linee ondulate circondavano il disco e chiaramente ritraevano la misteriosa sorgente d’energia che alimentava l’astronave.
«In loro onore migliaia di primitivi lavorarono per decenni, magari per secoli, per costruire questa piramide ed altre similari.»
Sebastian si fermò sopra un disegno della parete, come un serpente che si morda la coda.
«Come il grande Serpente Uroboro nella mitologia gnostica, quest’immagine rappresenta il passaggio di lunghi eoni di tempo e la continuità della vita. Ma nella simbologia degli antichi che costruirono questo posto, rappresenta due cose: un ciclo ripetitivo o una tradizione. Qualcosa che ricorre ancora ed ancora. Ma rappresenta anche una creatura, un essere qui definito “Grande Serpente”. In questo testo, e probabilmente anche in altri, gli antichi impararono che i loro dèi sarebbero tornati ogni cento anni, e quando l’avrebbero fatto si sarebbero aspettati un sacrificio. Sembra che gli umani fossero usati come ospiti per i Grandi Serpenti.»
«Serpenti?» chiese Lex.
Sebastian annuì. «Quelli che non assomigliano a noi.»
Sebastian proseguì a tradurre il disegno, una parata di vittime guidate da alti prelati e disposti su are sacrificali. Sotto questa immagine c’era la rappresentazione stilizzata di alcune uova, ed istruzioni rituali che mostravano come ogni uovo andasse posizionato in un posto preciso.
«Questo.. uovo è posizionato in una ciotola, non sul cuore della vittima», osservò Lex.
«Apparentemente. E in qualche modo le uova fertilizzavano i prescelti che davano vita ai Grandi Serpenti, così che gli dèi potessero combatterli.»
Sebastian le mostrò una grande disegno che mostrava il Grande Serpente scontrarsi con gli dèi in un combattimento mortale.
«Questa immagine?» chiese Lex, indicando un altro disegno che mostrava un singolo Predator davanti ad una piramide, con una serie di stelle intorno alla sua testa.
«Come gladiatori nell’arena queste due razze aliene continuano ad affrontarsi», spiegò Sebastian. «Solamente il più forte sopravvive. E i superstiti saranno quelli meritevoli di fare ritorno tra le stesse. Di tornare a casa.»
«E se perdono?»
Sebastian mostrò a Lex tre immagini in sequenza, un terribile terzetto da apocalisse. La prima era l’immagine di una grande piramide, con tre Predator stilizzati in cima e un’orda di Grandi Serpenti che si arrampicava verso l’alto. L’immagine successiva mostrava i Predator con le braccia alzate e linee ondulate che si irradiavano dai loro polsi.
La terza immagine era dannatamente familiare. Mostrava un’esplosione: una detonazione di luce verde con un fungo atomico sopra di essa, un’esplosione che ha distrutto tutto e tutti nel suo passaggio.
«Se gli dèi erano battuti, allora un evento terribile avrebbe sconvolto la zona, e la popolazione umana sarebbe scomparsa all’improvviso. Genocidio totale… un’intera civiltà spazzata via con un gesto solo.»
Lex si ammutolì. Un mistero su cui la sua famiglia aveva indagato per decenni era finalmente svelato.
«Allora queste creature sono già state qui prima», disse Lex. Non era una domanda.
«Senza dubbio», rispose Sebastian. «Migliaia di anni fa, e molte volte da allora: magari ancora in tempi recenti.»
Lex fissò Sebastian. «Nel 1979, proprio qui nell’Isola di Bouvet, ci fu una misteriosa detonazione nucleare. Nessuna nazione se ne assunse la responsabilità, e gli scienziati dell’Air Force non riuscirono a spiegarsi dove fossero stati presi gli isotopi radioattivi, visto che tutto l’uranio della Terra può essere tracciato attraverso la segnatura molecolare.»
«Come sai tutto questo?»
Lex incrociò le braccia. «Mio padre era un ricercatore dell’Air Force. Ha passato vent’anni a studiare l’evento ma non è riuscito a trovare le tracce degli isotopi d’uranio utilizato per l’esplosione.»
Sebastian si grattò il mento. «Quindi sono già stati qui.»
«Questi… predatori», disse Lex, «hanno portato quelle creature qui semplicemente per la caccia
«Sì», rispose lui.
«Quindi non li abbiamo scoperti noi?»

Sebastian scosse la testa. «Credo che quel calore fosse un segnale studiato per farci venire qui. L’intera piramide è una trappola. Senza di noi… non ci potrebbe essere alcuna caccia.»


Epilogo

Astronave dei Predator. Spazio profondo

Il suo lignaggio gli assicurava un posto d’onore, alla base della statua del loro potente dio selvaggio. La sua maschera era stata rimossa, la ferita sulla fronte era una macchia scura sulla pelle bianca.
La cerimonia funebre era conclusa e gli altri membri del clan erano entrati nei loro tubi criogenici, dove avrebbero dormito ibernati durante il lungo viaggio fino al mondo natale. Rimasto solo, in una camera dall’aria satura di incenso, il corpo di Scar si contrasse.

D’improvviso la carne grigia intorno al suo cuore morto si gonfiò e tremò come se una creatura fosse rimasta intrappolata dentro il suo corpo, agitandosi per uscirne.


L.

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  36. Bellissimo libro, un vero esempio di novelization ben scritta, soprattutto perché è la novelization di un film mediocre. Ho impiegato un po’ di tempo a finirlo perché in inglese ancora non leggo con fluidità, ma ne è proprio valsa la pena. Gli approfondimenti su alcuni personaggi e soprattutto sul Predator, l’astronave e le armi mi hanno folgorato! Mi emoziono quando trovo un romanzo dell’universo alieno che mi appassiona, e questo lo metto quasi al pari di Alien e Alien Resurrection! Ho ancora tantissimi libri inediti da leggere, ma purtroppo mi sembrano pochi quelli veramente degni di nota, anche se ad esempio questo mi era sfuggito e non pensavo affatto potesse colpirmi così.

    P.S. Davvero lodevole la tua traduzione, peccato che tu ti sia fermato a cinque capitoli 😛

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    • Ti ringrazio ed è stata una discreta ammazzata tradurre tutto quel testo. E’ un peccato che questo libro non sia uscito in digitale, spero prima o poi la Titan Books ne rilevi i diritti come ha fatto con quasi tutti gli altri.

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